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mardi, 13 octobre 2009

Rusia espera detalles del nuevo escudo antimisil de EEUU en Europa

Rusia espera detalles del nuevo escudo antimisil de EEUU en Europa

Rusia espera conocer los detalles del nuevo escudo antimisil de EEUU (DAM) en Europa en las consultas bilaterales previstas para el próximo 12 de octubre en Moscú, informó hoy el ministerio ruso de Asuntos Exteriores.

“Contamos con que la parte estadounidense nos suministrará información detallada y completa sobre las nuevas iniciativas de la administración sobre la creación del DAM”, dijo un funcionario del departamento de prensa de esa cartera a RIA Novosti.

En las consultas, la delegación rusa estará presidida por el viceministro Serguei Riabkov y la delegación estadounidense por la subsecretaria de Estado para el Control de Armamento Ellen Tauscher.


Recientemente, el presidente estadounidense, Barack Obama y el jefe del Pentágono Robert Gates anunciaron correcciones a los planes del DAM en Europa, que inicialmente tenía previsto la creación de una estación de radar en la República Checa y el emplazamiento de misiles interceptores en Polonia.

Los nuevos planes de EEUU no suponen una renuncia al emplazamiento de elementos del DAM en el territorio europeo sino que posterga ese proceso para el año 2015.

La nueva estructura del DAM incluidos los elementos terrestres se desarrollará en cuatro etapas y deberán estar operativas para el año 2020.

Moscú siempre se manifestó en contra de la configuración inicial del DAM estadounidense en Europa porque consideraba que la estación de radar en territorio checo, y los misiles en el polaco, amenazaban su seguridad nacional al alterar el equilibrio estratégico nuclear entre Rusia y EEUU.

Extraído de RIA Novosti.

lundi, 12 octobre 2009

Obama: ?Premio Nobel de la Paz o de la Guerra?

Obama: ¿Premio Nobel de la Paz o de la Guerra?

El presidente de Estados Unidos (EEUU) ha obtenido el premio Nobel de la Paz. Dicen los miembros del jurado que han valorado la apuesta del presidente de EEUU por un mundo sin armas nucleares, y por la paz mundial.

Poco hay que decir. Como mucho, reseñar que han premiado a quien aún no ha hecho nada en beneficio de la paz, y sólo “apuesta” por el desarme, algo que no resulta novedoso, pues sus antecesores en el cargo hicieron lo mismo y siempre se quedó todo en promesas vacías. Los cantos de sirena de Obama sobre el desarme, son tan falsos como él, pues no ignora que EEUU está en pleno declive y, en consecuencia, necesita potenciar, aún más, su poderío militar para generar nuevas guerras que prolonguen su agonía como potencia hegemónica.


Obama, hasta ahora, no ha tomado ninguna decisión determinante en aras de la paz o el desarme. El presidente del país que riega terrorismo y genocidios por todo el orbe, y primer exportador de armas, no tiene intenciones inmediatas de retirar las tropas de Iraq (más de un millón de muertos iraquíes, hasta ahora); no sabe qué hacer con la guerra de Afganistán, donde sus jefes militares provocan matanzas de civiles; concede patente de corso a Israel para que continúe masacrando al pueblo palestino; se niega a levantar el bloqueo criminal contra Cuba y amenaza a Irán por desarrollar un proyecto nuclear al que Teherán tiene pleno derecho. ¿A eso le llaman trabajar por la paz y el desarme?

Hace tiempo que el Nobel de la Paz cayó en barrena, incluso Menajem Beguin (un terrorista criminal) obtuvo ese galardón. Está tan envilecido que basta con fijarse en algunos candidatos (Bill Clinton, o el mafioso Berlusconi) para comprender que necesita regenerarse con urgencia, y retomar su concesión a personas honestas y sin doble moral. Adjudicárselo a Obama es un chiste malo, a no ser que estén pensando cambiar su denominación actual, por la de “Premio Nobel de la Guerra”.

J. M. Álvarez

Extraído de JMAlvarez.

~ por LaBanderaNegra en Octubre 10, 2009.

dimanche, 11 octobre 2009

Il bilancio occulto della "difesa" americana

pentagono

A fine giugno, Mother Jones ha pubblicato un’approfondita analisi sul bilancio militare degli Stati Uniti d’America, partendo dalla richiesta del presidente Barack Obama al Congresso di stanziare 534 miliardi di dollari per il Dipartimento della Difesa. Ma l’ammontare reale di ciò che gli USA spendono per la “difesa” è molto maggiore. Per rendere il tutto più facilmente digeribile, ve ne proponiamo una sintesi divisa in quattro parti.
L’Office of Management and Budget ha elaborato un calcolo totale che tiene in considerazione le diverse parti del governo, e comprende i soldi assegnati al Pentagono, le attività relative alle armi nucleari svolte presso il Dipartimento dell’Energia ed alcuni esborsi nel campo della sicurezza effettuati dal Dipartimento di Stato (il ministero degli esteri statunitense) e dall’FBI. Nel bilancio 2010 (che in realtà ha il suo momento iniziale nell’ottobre 2009) la cifra ammonta a 707 miliardi, più della metà della spesa governativa cosiddetta “discrezionale” per l’anno prossimo. La spesa discrezionale è quella per cui gli stanziamenti sono decisi annualmente dal Congresso, a differenza di programmi quali ad esempio quello sanitario denominato Medicare il cui finanziamento è obbligatorio e ricorrente.
Ma la cifra reale è ancora più alta perché, fra le varie cose, l’ufficio governativo del bilancio non tiene conto della spesa aggiuntiva per le guerre in Iraq ed Afghanistan. Riepilogando tutte le diverse fonti di spesa in campo militare per l’anno 2010 che emergono dai documenti contabili, si ha:

  • bilancio del Pentagono: 534 miliardi
  • stanziamenti extra per il personale militare: 4,1 miliardi
  • stanziamenti aggiuntivi Iraq-Afghanistan (anno fiscale 2010): 130 miliardi
  • stanziamenti aggiuntivi Iraq-Afghanistan (anno fiscale 2009, ancora da legiferare): 82,2 miliardi
  • armi nucleari ed altra spesa “atomica” (Dip. dell’Energia): 16,4 miliardi
  • sostegno militare ed economico ad Iraq, Afghanistan e Pakistan (Dip. di Stato): 4,9 miliardi
  • sicurezza, controterrorismo ed aiuto militare a Paesi stranieri, incluso il Medio Oriente ed Israele (Dipartimento di Stato): 8,4 miliardi
  • Guardia costiera (Dipartimento per la Sicurezza Interna): 583 milioni

Spesa totale: 780,4 miliardi di dollari

In questo calcolo sono incluse solo le risorse direttamente collegate ad attività militari, non viene quindi preso in considerazione il Dipartimento dei Veterani la cui spesa di 55,9 miliardi porterebbe il totale a 836,3; e la parte restante del Dipartimento per la Sicurezza Interna (altri 54,5 miliardi), arrivando così alla colossale cifra di 890,8 miliardi di dollari, rispetto ai 534 ufficialmente stanziati.
Si tenga poi presente che i bilanci degli apparati di intelligence (CIA, NSA…) sono segreti e che perciò non possono essere aggiunti a questa contabilità.

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Nel 2008, il Pentagono ha calcolato che gli impegni correnti per i programmi di armamento costeranno al governo, ad ultimazione avvenuta, 1.600 miliardi di dollari. Una parte consistente – 296 miliardi – è rappresentata da costi aggiuntivi. Questi 296 miliardi non sono il risultato di grandi programmi che, in via eccezionale, hanno sfondato il tetto di spesa e sbilanciato i conti, ma rappresentano la norma. Tali incrementi di costo sono spesso significativi: considerando tutti i programmi, la media dell’aumento rispetto alle stime iniziali è pari al 26%. Rappresentano la normalità anche i ritardi nel loro completamento, che riguardano ben il 72% dei programmi.
Incrementi di costo e ritardi hanno subito un peggioramento durante le due amministrazioni Bush terminate nel 2008, ma se si volge lo sguardo ancora più all’indietro si scopre che i costi aggiuntivi sono aumentati ad un ritmo serrato per tutti gli ultimi quindici anni, ad una media del 1,86% annuo per essere precisi. Se la spesa del Pentagono continuerà a crescere al tasso attuale, la media degli incrementi di costo raggiungerà il 46% in dieci anni.
Facendo qualche confronto, lo spreco militare USA è quattro volte tanto l’intera spesa per la difesa della Cina (che oggi rappresenta il secondo bilancio militare nazionale al mondo con 70 miliardi di dollari) ed è anche superiore al bilancio militare di tutti i Paesi dell’Unione Europea messi insieme (pari a 281 miliardi).

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Passiamo ora in rassegna i principali programmi militari statunitensi:

- cacciabombardiere F-22 Raptor: progettato per sfidare i velivoli di concezione sovietica, un F-22 costa 351 milioni di dollari, più del doppio delle stime originali.
Fu messo in produzione ancora prima di essere pienamente testato e – non sorprendentemente – è incorso in ogni genere di intoppi; non ha partecipato a nessuna azione di combattimento in Afghanistan né in Iraq. Il titolare del Pentagono Robert Gates ha deciso di acquistarne altri quattro, per un totale di 187 rispetto ai 243 che inizialmente l’USAF voleva.
Addirittura, all’inizio di quest’anno, 194 deputati e 44 senatori statunitensi hanno scritto ad Obama per sollecitarlo ad acquistare più F-22, ed a metà giugno i parlamentari del comitato militare della Camera hanno previsto uno stanziamento per altri 12 caccia. Sollecitazioni che però non sono servite a rianimare la morente linea di produzione del velivolo, almeno per l’uso domestico. Infatti
è notizia fresca il via libera da parte del comitato finanziario del Senato statunitense allo sviluppo di una versione del F-22 per l’esportazione, privato degli accorgimenti tecnologici “segreti” presenti nella versione originale. Probabilmente la decisione vuole far fronte alla perdita di migliaia di posti di lavoro causata dallo stop della produzione per l’aviazione USA; fra i probabili acquirenti figurano Giappone, Corea del Sud, Australia ed Israele;
- aereo da trasporto C-17 Globemaster III: l’aeronautica USA ne possiede 205 esemplari e non ne chiede di ulteriori,
ma il Senato intende introdurre nel bilancio per la difesa del 2010 l’importo di 2,5 miliardi per comprarne altri 10;
- Future Combat Systems: si tratta di apparati in cui armi, veicoli e robot coesistono, uniti da un comune sistema di comunicazione, ed è un altro caso in cui le intenzioni di spesa sono state messe in pista prima che la tecnologia in questione sia stata effettivamente testata. Dal 2003, il costo totale è aumentato del 73% fino ad arrivare a 159 miliardi, tanto che Gates nei mesi a venire vuole ripensare l’intero programma;
- elicottero presidenziale VH-71: Lockheed Martin ed Agusta Westland (del gruppo Finmeccanica) vinsero nel 2005 la commessa per il sostituto dell’attuale “Marine One”, un Sikorsky VH-60 entrato in servizio nel 1989. La flotta di 28 (!) esemplari doveva costare inizialmente 6 miliardi di dollari, ma poi i correttivi introdotti durante l’amministrazione Bush avevano portato il conto totale quasi a raddoppiare fino ad 11,2 miliardi (400 milioni ad esemplare). Il programma è stato cancellato a maggio, ed una conferma pubblica del suo annullamento è stata data dallo stesso presidente Obama ad agosto in un discorso ai veterani di guerra;
- DDG-1000 Destroyer: navi che dovrebbero costare 4 miliardi di dollari ma fonti alternative stimano un costo reale vicino ai 6 miliardi. Mentre la marina statunitense inizialmente desiderava acquistarne fra un minimo di 16 ed un massimo di 24, Gates tenterà di ridurre il programma a soli 3 Destroyers.

E’ comunque inquietante notare come Gates abbia dato il via libera ad un paio di palesi catorci. Del primo abbiamo già parlato su questo blog, si tratta del Littoral Combat Ship (LCS), un altro progetto Lockheed Martin sviluppato prima di completare i test. Nonostante i suoi costi siano quasi raddoppiati rispetto alle prime stime, Gates si è impegnato ad acquistare 55 di queste unità navali.
Ma
forse l’indizio più evidente della continuità del bilancio militare USA è la decisione di più che raddoppiare l’ordine di cacciabombardieri F-35 Lightning II Joint Strike Fighter (JSF), facendone il più grande programma di acquisizione del Dipartimento della Difesa (quasi a voler placare l’industria produttrice, l’onnipresente Lockheed Martin, per la cancellazione del F-22). Ciò nonostante l’F-35 sia ben lontano dall’essere pronto, visto che a novembre 2008 era stato implementato solo il 2% dei voli di prova previsti.
Secondo l’attuale calendario, gli Stati Uniti spenderebbero 57 miliardi di dollari per acquistarne 360 unità prima che i test siano completati. Per velocizzare i tempi, la Lockheed ha elaborato un piano per svolgere solo il 17% delle prove richieste mediante test di volo, il restante 83% affidandole ai simulatori. Sfortunatamente, secondo un rapporto della Corte dei Conti americana (GAO) “la capacità di sostituire i voli di prova con laboratori di simulazione non è stata ancora dimostrata”.
Ciò non fa che aumentare i dubbi sulla decisione del Dipartimento della Difesa di acquistarne 2.456 (sì, avete letto bene, duemilaquattrocentocinquantasei!).
Fonti ufficiali hanno stimato un costo per l’intero programma superiore al trilione di dollari (più di mille miliardi) – circa la stessa cifra del deficit nazionale -, sommando ai 300 miliardi per l’acquisizione dei velivoli i 760 miliardi per la loro operatività, manutenzione compresa. Ma poiché il Pentagono ha deciso di comprarne così tanti esemplari prima di verificare l’efficienza della tecnologia, ritardi ed incrementi di costo saranno inevitabili.

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Il Dipartimento della Difesa è presente dal 1995 nell’elenco di apparati governativi ad alto rischio stilato dalla Corte dei Conti statunitense. Per gestire gli acquisti, la contabilità e la logistica, le varie agenzie e servizi del Pentagono mantengono 2.480 diversi sistemi informatici, molti dei quali non sono interconnessi. Di conseguenza, nessuno conosce con sicurezza quanto il Pentagono abbia speso in passato, stia spendendo adesso e spenderà in futuro. Al contrario, esso fonda le sue decisioni di bilancio prevalentemente sulle informazioni delle aziende private vincitrici degli appalti.
Un rapporto del Defense Science Board Task Force on Developmental Test and Evaluation rileva che, fra il 1997 ed il 2006, benché il 67% dei sistemi d’arma non abbia superato i parametri di prova, molti di essi sono stati egualmente messi in produzione. Il concetto che il Pentagono dovrebbe “provare prima di comprare” risale almeno agli anni Settanta, ma i funzionari della difesa ed i parlamentari statunitensi non l’hanno mai veramente messo in pratica. Anzi, i funzionari sono fortemente incentivati a sottoscrivere contratti sottostimati perché se rendono noti i veri costi fin da subito, rischiano di non poter avere i loro “giocattoli”. Ogni tanto il Congresso o la Casa Bianca chiedono di insediare un’agenzia indipendente in grado di produrre stime attendibili dei costi, ma ciò è estremamente difficile a causa dello stretto rapporto tra i funzionari del Pentagono e l’industria bellica.
Nel 2006, 2.435 ex funzionari del Pentagono, generali ed ufficiali lavoravano per aziende private operanti nel settore della difesa, ed almeno 400 di questi erano impiegati nell’ambito di appalti direttamente collegati al loro precedente datore di lavoro governativo. Quando i calendari slittano di anni ed i bilanci sforano di miliardi, le aziende sono già state pagate; inoltre, è prassi fra i parlamentari dare il via libera al proseguimento dei programmi nonostante la legge preveda che essi devono essere informati su quei programmi che sforano il bilancio per più del 30% e che quelli con aumenti superiori al 50% devono essere ricertificati o cancellati.
Quest’anno, la Casa Bianca ha promesso di impiegare altri 20.000 funzionari nel prossimi quinquennio per tenere sotto controllo i contratti militari e la relativa spesa, ma bene che vada ci vorranno diversi anni prima che ciò porti frutti. La legge di riforma circa l’acquisto dei sistemi d’arma patrocinata dal candidato repubblicano alle ultime elezioni presidenziali, John McCain, prevede anche l’istituzione di un ufficio per l’accertamento imparziale dei costi che però non dovrebbe occuparsi di tutti i programmi. Ufficio il cui primo direttore, comunque, è William Lynn, lobbysta precedentemente al servizio proprio di un’azienda privata del complesso militare, la Raytheon.

mercredi, 07 octobre 2009

Russia is the future of Europe!

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Russia is the future of Europe !

Alexander LATSA ( http://alexandrelatsa.blogspot.com )

"There is no longer any doubt that with the end of the Cold War a lengthier world development period came to an end, spanning 400-500 years during which European civilization had dominated in the world. The historical West had consistently advanced on the edge of this dominance."

" The new stage is occasionally defined as “post-American.” But, of course, this is not a “world after the US” and even less so without the US. It is a world where as a result of the rise of other global centers of power and influence the relative significance of America’s role dwindles, as was already the case over recent decades in the global economy and trade. Leadership is an entirely different question though; it’s above all the question of achieving harmony within a circle of partners, of the ability to be the first, but among equals."

"To define the content of an emerging world order, such terms as multipolar, polycentric and nonpolar are also put forward"

"We do not share the concerns that the current reconfiguration in the world will unavoidably lead to “chaos and anarchy.” There goes the natural process of the formation of a new international architecture – political as well as financial-economic – which would correspond to the new realities."

"Russia conceives itself as being a part of European civilization having common Christian roots"

"The rigid Anglo-Saxon model of economic and social development is again, as it did in the 1920s, beginning to wobble.the global financial-economic architecture was largely created by the West to suit its own needs. And now that we watch the generally recognized shift of financial-economic power and influence towards the new fast-growing economies, such as China, India, Russia and Brazil, the inadequacy of this system to the new realities becomes obvious. In reality, a financial-economic basis is needed which would conform to the polycentricity of the contemporary world.
The manageability of world development can’t be restored otherwise." 


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More than a year after Sergei Lavrov’s assertions (June 2008), the only report that comes to mind is that the financial crisis has totally confirmed those assertions. At the dawn of the autumn 2009, the Western world is about to leave History by the smallest door, after having transmitted its metastasis to the whole humanity. In this world in transition, it would be good to wonder what game the European populations intend to play.

At that time where the line breakages are less and less legible, it would be good to remember that the only chance of survival of the Europeans is to get out of the suicidal atlantist rut and to develop a true and integrated collaboration with the Federation of Russia. This European-Russian partner could contribute to peace within Heartland, in the hart of this new multi polar and decentralized world. 

In a multi polar and decentralized world the European unity is unavoidable

Far from the ideal of psychology armchair, the reality of tomorrow is based on demography and economy. The decrease of America’s influence is also proved by the increase of many other actors: Brazil, Russia, India, China and the Arab Muslim world, both rich in energy and human capital. The world population reaches 6, 5 billions of inhabitants and will be over the 9 billions in 2050.  Europe counts today 758 millions inhabitants 91/3 of the EU0 and should see its population fall down, between 564 millions and 632 millions inhabitants i.e. 7 % to 8% of the world population and less than 20% of the GDP (about the same than China on its own).

France as an example should count 70 millions inhabitants in 2050, i.e. 0,8% of the world population, 1 inhabitant out of 3 being more than 60 years old and half of its youngest population being mainly African and from Northern Africa.

In this context, and despite the punchy speeches of credible and interesting personalities (Nicolas DuPont Aignant, Paul Marie Couteaux or Jean Pierre Chevènement to only quote those), the way out of the EU and the return to a national sovereignty is surely the very last solution to think of.

The EU is imperfect to 99%, because being led by Brussels, and under the influence of ‘’the American party’’, who treats Europe as an American colony.

Worse the Americans (who wish first to maintain their dominating position and defend their own interests) do not want a united and powerful Europe. This Europe may not follow them in their military offensives or even oppose to them diplomatically and maybe militarily.
This is the reason why the Americans try everything in order to have their Troy horse entering the EU (Turkey) in order to create dissension and destabilize a homogeneous whole on its way.

Let us not forget, at last, that Turkey is the second army of NATO and with Israel the pawn of America in the Near East, while occupying Cyprus.
This is the reason why America has done everything in order to persuade De Gaulle not to obtain the nuclear independency and to stop France to exit the NATO commandment.
An independent France would be a prelude to an independent Europe. The latter could lead to the worse situations for the US strategists: the loss of the advantages gained at the end of the World War II with the occupation of Western Europe and therefore the loss of the Heartland western side.

This is also the reason why some strategists of the ‘American party’ in Europe have understood the necessity to support the EU refusals through the anti EU and the Europhobic parties such as Ireland with the Libertas candidate.

More recently, the Europhobic Philippe de Villiers has also joined the atlantist party of Nicolas Sarkozy, UMP, a party though openly pro EU, after that UMP has had France joining the NATO commandment.

The loss of sovereignty for the European countries is a process that went through 2 stages.

* The first one is the end of the empires, originating from the Westphalia treaty, supporting the national identity concept (nation state) as the primary identity. This “nationalisation” of the European identities has generated the 30 years war that destroyed our continent in the first half of the 20th century. Strange coincidence, the Westphalia treaty ended a European civil war that lasted 30 years.
* The second is the stage of the fragmentation into regions. This process, are we told, is very progressive politically (i.e. regions would be the ultimate stage of the European integration). But it is in fact the result of a deliberate external political process aiming at weakening Europe, by fragmenting in small pieces that are left with neither economical independence nor military sovereignty.

This was the case in particular for Eastern Europe, e.g. Czechoslovakia, Yugoslavia or the USSR, for obvious reasons: Those nations are not under the western influence since long so they are suspected of being hostile to the Euro –Atlantic Axis.

Of course, it is no surprise that most of the regionalist European political parties are also the most Europhiles and the ones fighting most actively for a NATO expansion and a Euro – Atlantic integration.

Those same political alignments are shared by the Brussels commissioners, devoted agents of the American interests in Europe.

The Europe of Brussels is of course the opposite of the powerful and independent Europe that we want. The EU made of flesh, the reel EU (the non legal one) is the only aim to defend in order for the Europeans to control their destiny and to become more than spectators, to become actors.

The world of tomorrow though will probably not be a more opened world than the one we know. It surely will be a world made of blocks in conflict, conflict for territories zones and civilisations.
In this world of increasing tensions the key for Europe is to gain a structure of defence that belongs to it and allows her to protect its interests and citizens.
In that sense, the proposals of President Medvedev on the necessity of creating a Pan European structure of security (replacing NATO) are a real challenge and the most interesting one, for Europe.

In a multi polar world, let us exit NATO and create a continental and NON Atlantic defence’s system.

NATO is a military alliance created is 1949 in order to face USSR, but also in order to avoid a new risk to Europe (as it had been the case with Germany). Fast, this alliance, under the Anglos Saxons’ influence, led to the creation of a competing alliance in the other bloc, the soviet one, in 1955: ‘’ The Warsaw Pact’’. This double alliance split up the world in two rival blocs, until 1958 while the De Gaulle France decided to leave the Anglo Saxon block and to develop its own nuclear programme.

In 1966, France leaves the NATO commandment and the NATO HQ moves from Paris to Brussels, which is still the case nowadays. Brussels hosts the European institutions as well as the NATO ones. 30 years later in 1995, the French President Jacques Chirac started the negotiations to get back into the integrated commandment of NATO. This return was confirmed and focalized by President Sarkozy on the 17th March 2009.

Why this return ? What were the motivations of France to become an essential NATO actor ?

NATO has got today only two essential functions, both in the interest of America and both against the European interests.
First it has become a conquest weapon of the Eurasian heartland by America and its extension towards the East and the Russian borders. New nations are asked to join under wrong justifications, i.e. the historical fear of a Russian imperialism.  But this imperialism does not exist any longer. Only the American strategists keep it alive at perfection.

Under the pretext of entering the Euro-Atlantic partnership, NATO installs itself in the hart of Europe, pushes Russia back towards its own eastern borders and divides Europe once more, with the installation of American bases in front of the Russian borders.

This is the real aim of the Serbia campaign. Serbia is an ally of Russia in the logic of the Pentagon. With the bondsteel base but also the orchestrated revolution in Ukraine, the aim of America was to implement an American base in Crimea, in order to respond to the Russian base.

Since the 11/09/NATO has become a crusaders army at the eyes of the Muslim world, the same American strategists trying to convince us that NATO is a protection against the aggressive and terrorist Islamism.
No need though to be a scientist in order to understand that the Iraq and Afghanistan campaigns, if they could be won (which will probably not be the case) will not defeat ‘’terrorist’’ Islamism. Islamism is used today like an excuse in order to justify much older geopolitical objectives. Do we not suspect that the Afghanistan attack has been justified by the 11th September, but planned much before and that its reel aim had been the implementation of US troops in the heart of Eurasia?

Can we, without laughing, believe that the baathist Iraq of Saddam Hussein was one of the vectors of the world Islamist terrorism, or targeted for its petrol dwells?

Domination wars of the USA are wars aiming at controlling the natural resources that are concentrated (apart from Arctic) in the Arab peninsula, Iraq, Iran, Persian Gulf, Southern Russia (Caucasus) and Afghanistan.

Those resources conflicts are provoked by wrong motives, which are not Europe’s one. Worse, they may lead Europe to ethnical and religious tensions on ‘’its’’ territory.

Yugoslavia disintegration showed us how much a security structure was essential in order to maintain its harmony and face the external destabilizations. The recent Kosovo issue has perfectly shown that Europe is the bridge head that serves the USA who attack and invade Eurasia. America therefore creates tensions between European populations and in particular with Russia, to whom the ‘’Serbia’’ warning was addressed.

The vote of the Silk road strategy Act by the US Congress in 1999 was aimed at ‘’favouring’ the independence of the Caucasus and the Central Asian countries and at creating a land bridge in order to divert the road of the Silk Road to the Turkish harbours, therefore a NATO country.

The BATCH oil pipeline that passes by Georgia is following the same strategy and also partly explains the development of the military assistance to Georgia, since the arrival at power of Mikhaïl Saakachvili.

In a multi polar world with many centres, we could avoid a continental disintegration
In 1999 despite the attack on Serbia and after 10 years of total collapse, the assumption by Vladimir Poutine straightens Russia up and replaces the country at the front of the word political scene. Europe has toppled over NATO (by its participation to the bombing of Serbia). Russia, China, and the Muslim nations of Central Asia create in 2001 the Shanghai organisation as well as the OSTC in 2002. Those military Eurasian and inter-religious alliances aim at replying to the double Chinese and Russian surrounding by the American army and at defending the Eurasian regional well defined area.
Zbigniew Brezinski said: «The Eurasian strategy of the USA brought Russia and China closer. The two continental powers are building a real military alliance in order to face the Anglo Saxon coalition and its allies. » 


The American offensive towards the East (from Berlin to Kiev) has materialized in two majors steps, from 1996 until 2009.

In 1996, GUUAM was born. It regroups Georgia, Uzbekistan, Ukraine, Azerbaijan and Moldavia.
Those nations wish to get out of the post soviet bosom, right after the Berlin wall fall and while Russia was collapsing. It is not surprising that those nations who have strategic geographical positions, consequently have been the victims of revolutions financed by the CIA (orange revolution, tulips, roses and recently in Moldavia too after the elections). They also have been the victims of changes of western regimes. The most representative members of this association are the observers, Turkey and Latvia (!).
Nevertheless those regimes have not made it through, despite the expectations of their supporters (integration to NATO and EU, improvement of life).
On the contrary, those overthrown regimes have degraded economically and no integration into the euro-atlantist model occurred.

This is the reason why the departure of Uzbekistan in 2005 and the absence of concrete realization of the organization have led the latter to become inexistent politically. In May 2006 the political scientist Zardust Alizadé from Azerbaijan expressed his doubts regarding the development of the alliance and of the alliance’s ‘’practical results’’.

Today, the second step sees a quite aggressive materialization through the creation of a new front that we may call GUA (Georgia, Ukraine, and Arctic). In Georgia: the political incapacity of the president has pushed the American strategists to launch a military operation in August 2008. This operation failed because the Russian army has replied with a lot of strength and has liberated the territories of Ossetia and Abkhazia.  This conflict is the first conflict opposing Russia to America out of the Russian borders. The previous conflict had been the Whabitt destabilization in Chechnya, instigated mainly by the CIA.

In Ukraine the recent conflicts about gas show the growing tensions and a bright observer recently said that ‘’ a limited conflict, under the pretext of a territorial dispute, will surely burst and lead to a rupture of the gas’ supplies for a more or less long period of time. Those gas crises are provoked in order to train the Europeans to get used to such cuts.’’

Artic would need another article just for itself. I invite my readers to read my previous articles on the topic here and there and to consult the blog « zebrastationpolaire ».

Those manoeuvres of surroundings, of containment and of destabilization have various objectives:
-  To control the Black sea the Caspian and Baltic seas perimeters as they are essential zones of transit between the East and the West.
- To control the future corridors of energy in particular via a building project of oil and gas pipelines going round Russia but linking the regions of the Caspian sea with the ones of the Black and the Baltic sea.
- To spread the NATO influence further East in the heart of Eurasia in order to reduce the sphere of influence of Russia (on its close stranger) but mainly in Europe, and avoid a potential development of the Chinese influence towards Central Asia.  

Of course, a non experienced reader will tell me that the Russians and the Americans have never stopped to fight since 1945 and that globally this is not the business of Europe and of the Europeans. Well, this is exactly the contrary.

In a multipolar world with many centres, the Euro-Russian Alliance is the key stone for peace on the continent.
The consequences we told you about in this article are dramatic for Europe. They will cut Europe from Russia at a civilization, geopolitical, political and energetic level.
They will create a new wall in Europe, not in Berlin but in the heart of Ukraine, separating the West (under the American influence) from the East (under the Russian influence).
In a more pragmatic way this fracture nearly cuts the Orthodox Europe from the catholic and protestant Europe, underlining the theory of S.Hungtinton in his book « The shock of civilisations ». Last, let us note that China, a crucial geopolitical and economical actor, probably sees Europe (through NATO) as co-responsible of the surrounding situation that it (China) faces, West (military American bases in central Asia) and East (the Pacific along its shores, with also many American bases).
This rupture with two essential actors that are Russia (the biggest country in the world) and China (the most populated country of the world) are very serious.

In case of growing tensions with NATO and OCS, France and the other European countries would be in a conflict with an organisation that nearly groups together, one man out of three in the world, covers 32, 3 millions of km² et resources wise groups together 20 % of the petroleum world resources, 38% of natural gas, 40% coal and 50% uranium.

This strategy of separation of Russia and Europe and of Western and the centre will limit Europe in a micro territory slot in the west of the continent and will cut t from the huge possibilities that a partnership with Russia would offer.  
·         Europe needs Russia energy wise because Russia has got the gas and the petroleum resources that Europe needs. Russia is a stable supplier as its relation with Turkey proves it. Turkey has no supply problem. Just remember that the supply cuts during the war with Ukraine were due to the latter, but funnily enough the media have made Russia guilty).  The topic ‘’energy’’ is essential because Europe under the American commandment is proposed very risky alternatives, as for instance to replace Russia by Turkey (A NATO country aiming at becoming an EU member!). . This replacement of Russia by Turkey would also mean to have Nabbuco instead of South Stream and to participate to conflicts for energy (like Iraq). Europe could surely avoid all those troubles.
·         Europe needs the fabulous Russian potential, the human one (140 millions inhabitants), and the geographical one (17 millions km2 and its opening on the Pacific). Europe would therefore become a crucial actor, especially with the Asian world, the latter being in a full development process.
·         Russia also needs Europe and the Europeans not only for allocating its primary resources but also for its technologies and human capital that it could use to fight against it depopulation at the East of Oral. Last but not least it needs Europe like a natural and complementary ally, originating from the same civilisation.

This Euro- Russian unity is the only warrant of peace and independence for the continent populations. It is vital, it is strongly advised, because the Western European and the Russians belong to the same civilisation first of all.

As Natalia Narotchnitskaïa recently said in Paris during a colloquy:

 « The real cooperation between Russia and Europe could give a new energy to our continent, at the dawn of the third millenary. The big roman – German and Russo- Orthodox cultures share one and only one apostolic foundation, the Christian and spiritual one. Europeans, whether they are western or Russians, have given to the world the biggest examples of the orthodox and Latin spirituality.’’

These are the reasons why Russia is the future of Europe.

Politische Information über Portugal

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Politische Information über Portugal

 

Portugal hat ja auch letztes Wochenende gewählt

Dort gibt es auf der "Rechten" (im weitesten Sinne) zwei Parteien,

die rechtsliberalen Sozialdemokraten (in der deutschen Presse oft konservativ genannt)

http://de.wikipedia.org/wiki/Partido_Social_Democrata
http://www.politicadeverdade.com/

und das rechtskonservative demokratisch-soziale Zentrum (in der deutschen Presse oft als Rechtspopulisten erwähnt), die mit über 10 Prozent ein recht gutes Ergebnis einfuhren. Hier ist man katholisch-konservativ, gegen Zuwanderung und Abtreibung...

http://de.wikipedia.org/wiki/Centro_Democr%C3%A1tico_e_Social_%E2%80%93_Partido_Popular
http://www.cds.pt/

Die weitere Parteienlandschaft Portugals ist stark linkslastig. Kommunisten gemeinsam mit Grünen in einem Bündnis gemeinsam im Parlament, und dann neben den regierenden Sozialisten noch ein trotzkistisch beeinflusster Linksblock, zudem gibt es bei den nicht vertretenen Parteien auch mehrere weitere Marxisten.
Ich bin aber noch auf drei weitere interessante rechte Parteien gestoßen, die allerdings alle nicht einen Prozent bei der Wahl bekommen haben.

Die Monarchisten - Partido Popular Monárquico

http://de.wikipedia.org/wiki/Partido_Popular_Mon%C3%A1rquico
http://www.ppm.pt/
(auf die Flagge klicken)

Die "Rechtsradikalen" - Partido Nacional Renovador
(scheint so etwas wie eine gemäßigte NPD zu sein; Übrigens mal ein Beispiel für gelungenen "Entrismus" von rechts)

http://de.wikipedia.org/wiki/Partido_Nacional_Renovador
http://www.pnr.pt/
(die Internetseite war heute nicht vorhanden, gestern war ich aber noch drauf. Vielleicht ein Umbau? Vielleicht sind sie auch enttäuscht vom schlechten Wahlergebnis (ich glaube 0,2 Prozent))
Somit einige Bilder, als sinnliche Ergänzung:
http://3.bp.blogspot.com/_TGTJ1-LWGo4/SFfAPPzhBjI/AAAAAAAAABw/IErlzWF-wIQ/s320/Revista.JPG
http://img242.imageshack.us/img242/7199/pnr2hy6.png
http://ofogodavontade.wordpress.com/2009/08/15/nacional-e-social/
http://portugalmensal.blogspot.com/2008_05_01_archive.html
http://aspirinab.com/ficheiros/eca-pnr.jpg

Am interessantesten erscheint mir allerdings die Partei, die bei der Wahl am allerwenigsten Stimmen erhalten hat. Wirkt irgendwie alles sehr positiv.
Die ökologisch-konservative "Partei der Erde" - Partido da Terra

http://de.wikipedia.org/wiki/Partido_da_Terra
http://www.mpt.pt/mpt2009/index.php

Nun vielleicht ist das für den ein oder anderen interessant, vor allem wenn man Portugiesisch versteht.

vendredi, 02 octobre 2009

Charles Michel en denken op lange termijn...

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Charles Michel en denken op lange termijn...

Geplaatst door yvespernet op 23 september 2009

…blijkt geen goede combinatie. En waar blijkt dit uit?

…blijkt geen goede combinatie. Aanleiding hiervoor?
http://www.hln.be/hln/nl/2659/Voedselcrisis/article/detail/1000036/2009/09/22/Eindelijk-Michel-pleit-om-honger-te-bestrijden-met-melk-die-boeren-wegkappen.dhtml
Elke vijf seconden overlijdt in de wereld een kind van de honger, en boze boeren gieten hier in Europa de melk met de miljoenen liters uit op hun akkers: heel veel mensen hebben het hier bijzonder moeilijk mee en ze worden eindelijk bijgetreden door een politicus.
Pleidooi
Onze minister voor Ontwikkelingssamenwerking Charles Michel gaat bij EU-voorzitter Zweden en bij de Verenigde Naties bepleiten om de melk die boze boeren nu op hun akkers lozen naar landen te sturen waar hongersnood heerst, zoals Somalië, Ethiopië en Kenia….blijkt geen goede combinatie. Aanleiding hiervoor?

http://www.hln.be/hln/nl/2659/Voedselcrisis/article/detail/1000036/2009/09/22/Eindelijk-Michel-pleit-om-honger-te-bestrijden-met-melk-die-boeren-wegkappen.dhtml

Elke vijf seconden overlijdt in de wereld een kind van de honger, en boze boeren gieten hier in Europa de melk met de miljoenen liters uit op hun akkers: heel veel mensen hebben het hier bijzonder moeilijk mee en ze worden eindelijk bijgetreden door een politicus. [...] Onze minister voor Ontwikkelingssamenwerking Charles Michel gaat bij EU-voorzitter Zweden en bij de Verenigde Naties bepleiten om de melk die boze boeren nu op hun akkers lozen naar landen te sturen waar hongersnood heerst, zoals Somalië, Ethiopië en Kenia.

lk geef toe, het klinkt allemaal simpel en heel nobel. Wij hebben voedsel te veel, zij hebben voedsel teveel. Maar door de landbouwoverschotten te gaan weggeven, ga je niets oplossen. Sterker nog, dan ga je de zaken veel erger maken. Één van de grootste problemen van Afrika zit immers in de kapitaalsconcentratie. Je hebt een kleine topklasse met enorm veel geld, een enorme onderlaag met niets en daartussen zit amper iemand. Er is in andere woorden geen middenstand in Afrika, geen lokale ondernemers, geen “burgerij” (in de mate dat die term volledig toepasbaar is hier).

Wat gaat gratis voedsel weggeven veroorzaken? In gebieden waar enkel een economische woestenij is, kan dat inderdaad problemen op korte termijn oplossen. In gebieden waar er nog een iewat onafhankelijk economisch leven is, onafhankelijk van de grote elites aan de top en waar de middenstand genoeg kapitaal kan vergaren om te overleven, is dit soort beleid een regelrechte ramp! Laten we ons even verplaatsen in de geest van de gemiddelde Afrikaanse consument in die laatste gebieden. Je hebt honger en je kan kiezen:

  1. Voedsel bij de lokale winkel kopen en kapitaal verliezen.
  2. Voedsel krijgen bij de voedselbedeling uit westerse landen.

Het overgrote merendeel zal voor optie twee kiezen. Dit zorgt echter voor een verarming van de lokale Afrikaanse economie en een verergering van de economische toestand in Afrika. Iets dat destijds ook gebeurd is in de vleesmarkten rond de Sahel-landen waar de gratis voedseloverschotten vanuit Europa uiteindelijk een economische sector in opbouw, die op lange termijn had kunnen zorgen voor een onafhankelijkheid van die landen voor voedselvoorraad, instortte. Men zou beter dit voedsel aan goedkope prijzen verkopen aan de lokale middenstand gecombineerd met een beleid waarbij microkredieten een prominente rol spelen.

 

mercredi, 30 septembre 2009

Les arguments rationnels ne manquent pas - Pour conclure à propos de la candidature d'Ankara

Les arguments rationnels ne manquent pas

Pour conclure à propos de la candidature d'Ankara

090925

Ex: http://www.insolent.fr/
Je boucle aujourd'hui le dossier consacré à la question turque, mon petit livre paraissant la semaine prochaine, un peu plus lourd que prévu (1).

Au moment où j'écris, en vue de conclure, d'importantes transformations agitent le débat politique en Turquie même, sans que les Européens semblent en recevoir l'information. Il s'agira probablement d'évolutions en partie réelles. Le parti actuellement majoritaire AKP, et les forces confrériques qu'il représente, poussent leurs pions pour des raisons essentiellement nationales. Mais le courant de réforme a explicitement été développé fin juin en fonction de la candidature à l'Union européenne, en vue de la rendre présentable. Cela a été répété par le premier ministre Erdogan et par le président de la république Abdullah Gül.

On a ainsi assisté à une offensive diplomatique en direction des Arméniens, en leur promettant à terme la réouverture d'une frontière dont le blocage enclave complètement leur pays. On a vaguement ouvert la porte à une normalisation du statut de minorités religieuses. Or ces dernières se trouvent numériquement si affaiblies qu'on se demande désormais quelle menace elles pourraient bien représenter encore pour l'ombrageux jacobinisme turc. On prend ainsi en otage leurs représentants afin d'en faire des agents de la diplomatie turque, dans la tradition des pays totalitaires.

La plus importante avancée serait proposée aux Kurdes. Or, après que le chef du gouvernement ait reçu certains dirigeants de leur contestation, une passe d'armes considérable aura opposé entre le 25 août et le 22 septembre, les dirigeants politiques et le chef d'État-Major des forces armées turques, le général Basbug. Celui-ci avait déclaré en août que l'armée ne pourrait accepter et que par conséquent elle s'opposerait à tout plan violant l'article 3 de la constitution lequel dispose 1° que la Turquie est un État unitaire et indivisible, et 2° que sa langue est le turc. Les opposants kémalistes et nationalistes faisaient chorus et criaient à la trahison gouvernementale. On ne pouvait menacer plus nettement d'une hypothèse de putsch récurrente dans la vie politique de ce pays depuis qu'en 1946 il a adopté le pluralisme démocratique.

En moins d'un mois, et malgré le ramadan, le chef du gouvernement et du parti AKP est intervenu à la télévision pour démentir toute rumeur de réforme vraiment radicale, et enfin le 22 septembre à Mardin le général Basbug pouvait déclarer désormais qu'il avait obtenu satisfaction, et qu'il ne fallait plus s'inquiéter. Il ne fallait même plus que les officiers regardent les fausses nouvelles déprimantes annoncées par les chaînes de télévision de leur beau pays. Aucune vraie concession linguistique ou institutionnelle ne sera faite aux Kurdes. L'armée n'a même pas eu besoin de faire la démarche de l'hiver 1996-1997, où elle avait forcé le gouvernement à la démission. Elle pense avoir obtenu gain de cause en se contentant de froncer les sourcils à la fin de l'été.

Toute cette affaire était donc destinée à ménager les apparences auprès des interlocuteurs de Bruxelles, aux gens si représentatifs comme Emma Bonino, Michel Rocard et autres directeurs de conscience qui relayent la propagande de nos chers amis. Les réformes promises demeureront cosmétiques ou elles ne verront même pas le jour. Mais cela suffira à quelques médiats européens de saluer de nouveaux "espoirs", d'hypothétiques "accords en vue", de prétendus "progrès dans la négociation" aussi fallacieux que par le passé.

Et, à vrai dire, quand on s'efforce, depuis des années, de suivre l'avancée de la candidature d'Ankara auprès de l'Europe institutionnelle, on éprouve une véritable difficulté s'agissant de comprendre la logique de ceux qui s'y acharnent. Ils peuvent appeler cette carpe lapin, ils ne parviennent pas à faire courir devant nos yeux ce malheureux poisson, et cela dure depuis 20 ans. À force de mentir cependant ils finissent petit à petit par persuader à la partie bienveillante de l'opinion qu'il courra. Bientôt on pariera sur sa victoire.

Turgut Özal a déposé son dossier en 1987 près d'un quart de siècle après le premier accord d'association commerciale de 1963. À cette époque, premier ministre désigné par une dictature il rassurait les milieux d'affaires, et il mettait en place la transition vers un régime civil conforme aux desiderata du coup d'État militaire de septembre 1980. Le général Evren dirigeait le pays en qualité de président de la république désigné par l'Etat-Major de l'armée. Il s'agissait de normaliser l'apparence de la vie politique mais également l'image internationale du pays. À cette candidature pratiquement personne, en Europe, ne pouvait croire vraiment. On s'interrogeait alors à Bruxelles : « comment éluder sans vexer ». Il initiait cette demande alors que la commission Delors s'employait à franchir une première étape en direction de la construction politique, prolongeant la communauté économique des premiers traités. Cette évolution allait donner naissance à l'Union européenne scellée en 1991 à Maastricht. Or à l'époque la Turquie briguait le 13e siège d'une communauté ne comptant encore que 12 membres. Aujourd'hui nous avons atteint le nombre de 27 nations. D'autres nouvelles adhésions se profilent (Croatie, Islande par exemple) plus vraisemblables, plus mûres que celle de ce pilier de l'OTAN.

À vrai dire, survolant les problèmes, le Département d'État de Washington semble la seule bureaucratie qui ait toujours cru, ou fait semblant de croire, à l'appartenance européenne de ce pays. Et comme cela n'a jamais rien coûté aux présidents américains, ils réitèrent régulièrement, quand ils rencontrent leurs homologues turcs, l'expression conventionnelle de leur opinion favorable, à la grande satisfaction des médiats d'Istanbul. Surestimer cependant le poids de telles déclarations diplomatiques tendrait à masquer les responsabilités de la sottise européenne.

Car, en même temps, subrepticement, dans les coulisses bruxelloises, le dossier technique continue d'avancer. Certes il suit un rythme de tortue. Certes il fait bon marché de toute vraisemblance. Certes il chemine dans la plus totale opacité. Certes en 2007 un candidat à la présidence de la république française a pu se faire élire en promettant de s'opposer à cette avancée turque. Pourtant en 2008, une réforme constitutionnelle fourre-tout, votée à Versailles, a permis de supprimer sans que les citoyens n'y prennent garde les dispositions introduites par l'éphémère article 88-5. Celui-ci avait été présenté comme la garantie suprême contre toute hypothèse d'un élargissement non voulu. Selon cet ancien additif à la constitution de 1958, tout traité de cette nature devait être soumis à un référendum de ratification par les Français. Mais hélas rien ne garantissait cette garantie. On la fit passer à la trappe un an après la victoire électorale.

Parallèlement encore, l'un après l'autre s'ouvrent des "chapitres" de négociations comme une tablette de chocolat, grignotée carré par carré, avant de disparaître : 35 chapitres, puis la ratification. Quand donc a-t-on vu une chose aussi extraordinaire qu'un dernier morceau de chocolat, le 36e, demeurer stoïquement et chastement, immangé, esseulé, dans son écrin de papier argenté, après que ses 35 confrères aient disparu ?

On va donc chercher à forcer la résistance naturelle des systèmes de droit, des hommes politiques et des citoyens pour des motifs géostratégiques chimériques inventés dans des bureaux aseptisés, entièrement coupés de toute réalité européenne charnelle. On va faire propager ces mots d'ordre par tous les serre-files habituels du politiquement correct.

Chacun d'entre nous a pu rencontrer tel ou tel de ces bons esprits. Dociles, ils croient dur comme fer à leur astrologie indémontrée mais péremptoire, car transmise depuis l'Antiquité grâce aux mages de la Chaldée ou de la Perse. Ils nous invitent à dépasser le stade, qu'eux-mêmes n'ont sans doute jamais atteint, celui la conscience nationale, identitaire ou européenne ; à les entendre, il faudrait voir plus haut et plus loin dans le devenir de l'humanité. La lourdeur de la géographie leur indiffère. La tragédie de l'Histoire leur échappe. Seul compte leur désir de paraître intelligents, et si cette illusion se révèle impossible, ils se voudront au moins dans le vent.

Or l'idée de prétendre les Turcs européens mériterait plutôt de se voir noter pour son ineptie, pour sa contradiction, et même, au fond, pour sa cocasserie.

On peut égrener des arguments rationnels. Ils ne manquent pas.

On les retrouvera tout au long du petit volume qui sort de presse ces jours-ci.

Essayons de les résumer pour constituer une sorte de fil conducteur.

1° Argument géographique. Ce pays ne se situe tout simplement pas en Europe. Il n'a donc pas plus vocation à participer à la confédération de notre continent que la possession du département français de la Guyane ne situe l'Hexagone en Amérique.

2° Argument mémoriel. Rationnellement, on professera sans doute que, si même les dirigeants d'Ankara consentaient de reconnaître le génocide arménien, cela ne déplacerait pas d'Asie en Europe le siège de leur gouvernement. Mais le seul fait que cet État s'obstine à nier les crimes commis par son prédécesseur de 1915, puisqu'il s'agissait du gouvernement jeune-turc et de l'empire ottoman, en dit long sur la différence de mentalité des gouvernants actuels de ce pays et ceux des nations d'Europe.

3° Argument linguistique. La langue turque n'est pas européenne. La culture à laquelle elle renvoie vient d'Asie centrale, mêlée au cours de l'Histoire aux apports d'autres cultures de l'orient, persanes et arabes.

4° Argument de la violence sociale. La société turque est fondée sur l'acceptation permanente d'une violence dont l'Europe s'est affranchie depuis plusieurs siècles.

5° Argument du système juridique. À plusieurs reprises, depuis le XIXe siècle, l'Empire ottoman d'abord, puis la république kémaliste ont cherché à importer sur le papier les pratiques et les principes juridiques de l'occident. Mais l'état de droit est fort loin de s'être vraiment acclimaté. Un certain nombre d'interdictions pèsent de manière redoutable sur la liberté d'expression, sur le droit de propriété, etc. L'importation des 85 000 pages de la réglementation européenne se révélerait inapplicable et illusoire.

6° Argument de l'économie. On invoque bien souvent l'imbrication des économies. En réalité, le pas décisif, franchi sous l'impulsion de la présidence français en 1993, et sous l'influence de MM. Balladur et Juppé, forçant le parlement européen à ratifier l'Union douanière, a créé une situation paradoxale. La sous-traitance industrielle développe l'économie turque sur la base du fait qu'elle n'est tributaire ni de la zone euro ni de la réglementation bruxelloise. Il en va de même avec d'autres pays émergents, on peut comparer cette situation avec celle de la Chine : cette forme de coopération économique exclut toute intégration juridique, monétaire, sociale et politique.

7° Argument du coût. La politique agricole et toutes les subventions et redistributions que l'Europe pratique ne sauraient mettre aux normes avant des décennies, à partir des budgets communautaires actuels, sans une modification radicale du pouvoir de financement de Bruxelles, cet immense pays aux besoins considérables. On notera par exemple que la formation brute de capital fixe y est à peine supérieure à celle de la Grèce, sept fois moins peuplée. L'Europe a encore de gros efforts à accomplir pour intégrer complètement les pays de l'est. Qui payera ?

8° Argument historique. Certes la plupart des nations européennes ont été en conflit, et alliées, les unes contre les autres, alternativement. Le seul ennemi commun des Européens depuis le XVe siècle a été la Turquie. On ne connaît pas les princesses turques ayant épousé un seul de nos rois.

9° Argument des réalités criminelles. À défaut de nous avoir donné ses princesses par le passé, ce pays nous expédie ses mafieux, ses trafics de drogue, ses réseaux d'immigration clandestine, ses énormes contrefaçons de nos marques, etc. On appelle cela un "grand pays ami".

10° Argument de l'homogénéité européenne. Bien évidemment cette irruption romprait toute perspective de constitution d'une société européenne, toute l'évolution naturelle de l'union vers la confédération, puis de celle-ci vers la fédération. On comprend mieux pourquoi les partisans de l'Europe des États, dite "intergouvernementale", adversaires forcenés de tout fédéralisme parce qu'adversaires de l'Europe, poussent cette candidature.

11° Argument de la taille et du poids dans les institutions. Insérée dans une Europe démocratique, la Turquie deviendrait, du seul fait de sa population, le principal État, elle compterait le plus grand nombre d'eurodéputés, etc.

12° Argument démocratique : les peuples n'en veulent pas. Cela devrait suffire à nos gouvernants.

Enfin, on doit mettre à part le contre argument des racines chrétiennes de l'Europe. Il préoccupe légitimement les croyants des diverses Églises et qui a été mentionné par Jean-Paul II et Benoît XVI ne peut pas être passé à la trappe. On peut constater qu'il existe aussi des racines européennes dans le christianisme, que Platon se retrouve chez les Pères de l'Église, qu'Aristote se retrouve dans saint Thomas d'Aquin, etc. manifestant une imprégnation réciproque des deux réalités. Mais on constate aussi qu'il est surtout invoqué "a contrario" par ceux qui prétendent "ne pas vouloir blesser les musulmans", qui veulent "empêcher que l'Europe soit un club chrétien". Mais précisément personne n'a jamais proposé rien de tel. On finit par se demander si l'argument ne consiste pas à considérer que la vraie raison, le meilleur titre de ce pays exotique à entrer dans la famille européenne viendrait de ce qu'il n'en a jamais fait partie. Il s'agirait de vouloir à tout prix le faire entrer, de soutenir, contre toute raison, cette encombrante candidature, parce qu'il est musulman.

Apostilles
  1. Notre "Cahier de l'Insolent" consacré à "La Question Turque" paraîtra avec quelques jours de retard, début octobre pour tenir compte débats importants ces jours-ci en Turquie. Il formera un petit livre finalement plus épais, de 164 pages, et coûtera en librairie 15 euros à l'unité après parution. Conçu comme un outil argumentaire, contenant une documentation, des informations et des réflexions largement inédites en France, vous pouvez le commander à l'avance, au prix franco de port de 8 euros pour un exemplaire, 35 euros pour la diffusion de 5 exemplaires (maintenu jusqu'au 1er octobre). Règlement par chèque à l'ordre de "l'Insolent" correspondance : 39 rue du Cherche Midi 75006 Paris.
JG Malliarakis

mardi, 29 septembre 2009

A propos du Sommet entre Africains et Latino-Américains

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A propos du Sommet entre Africains et Latino-Américains

 

Le sommet entre pays d’Afrique et d’Amérique latine se tiendra les 26 et 27 septembre prochains au Venezuela. Il aura pour but, selon le Président Chavez, de créer un “pont” entre les deux rives de l’Atlantique Sud. Dans la célèbre émission télévisée vénézuélienne “Alo Presidente!”, où Chavez s’adresse chaque dimanche directement à son peuple, le président “bolivarien” a déclaré: “Il faut créer un pont entre le Venezuela et l’Afrique, un pont de solidarité, de coopération, de rapprochement culturel, politique et économique qui s’avèrera fondamental pour la vie de nos deux continents”. Et: “Nous sommes latino-américains mais aussi africains; plus africains que les autres. Sans l’Afrique, nous ne serions pas tels que nous sommes”. Outre quelques outrances, qui pourraient prêter à rire, ce discours implique que des relations bilatérales entre continents peuvent désormais émerger (ou devraient pouvoir émerger) sans l’intervention de Washington et sans une participation nord-américaine. En ce sens, l’exemple que vient de donner Chavez, en tendant la main à l’Afrique, pourrait servir de modèle à l’Europe, qui ne parvient pas à se débarrasser du boulet atlantiste. Si Latino-Américains et Africains envisagent l’établissement de “ponts”, on ne voit pas pourquoi l’Europe et le reste de l’Eurasie n’envisageraient pas la consolidation définitive de “ponts” qui nous ramenerait à l’optimum stratégique que fut, pendant seulement une quinzaine d’années au début du 19ème siècle, la Pentarchie européenne qui s’étendait de l’Atlantique au Pacifique. Au contraire, l’Europe vassalisée tolère que Washington installe des obstacles entre l’Europe et le reste de l’Eurasie: surtout dans le Caucase, non seulement en entretenant l’abcès de fixation tchétchène, mais en induisant une nouvelle diplomatie turque à faire sauter le verrou arménien, entre la Turquie et l’Azerbaïdjan et, pire, à faire sauter le pont arménien potentiel entre la Russie et l’Iran.

 

La règle géopolitique en jeu ici est celle, éternelle, de la biocéanité: la Pentarchie était bi-océanique; la Doctrine Monroe visait la biocéanité nord-américaine; le Mercosur vise une bi-océanité ibéro-américaine entre Atlantique et Pacifique; les géopolitologues d’Amérique du Sud ont déjà, avant Chavez, imaginé un “pont” au-dessus du Pacifique (la géopolitique pacifique de Pinochet, notamment); désormais, comme dans les spéculations géopolitiques sur le “Cinquième Empire” de Dominique de Roux, Chavez entend rétablir un “pont” au-dessus de l’Atlantique Sud, en direction d’une Afrique, à laquelle les Britanniques ont toujours ravi la biocéanité, en torpillant les projets allemands, belges et portugais de “Mittelafrika” entre l’Atlantique et l’Océan Indien. La marche du monde, les vicissitudes de la politique internationale, sont bien souvent déterminées par la volonté de bi-océanicité: la Chine actuelle, notamment, cherche à devenir biocéanique, avec sa façade pacifique et ses bases au Myanmar, reliées au territoire chinois par les axes routiers birmans installés par les Alliés anglo-saxons pendant la seconde guerre mondiale pour venir en aide à Tchang Kai-Tchek. L’Axe euro-russe pourrait, lui, viser la quadri-océanité: arctique, atlantique, pacifique et indienne. A méditer.

 

Robert Steuckers.

dimanche, 27 septembre 2009

Pertinence et limites de l'altermondialisme

rabehl.jpgPertinence et limites de l'altermondialisme

Ex: http://unitepopulaire.org/

« Les analyses de l’impérialisme qui proviennent du milieu altermondialiste méritent d’être lues. Il leur manque toutefois une base sociale. Les altermondialistes espèrent séduire les syndicats et les partis de gauche, mais bien souvent ils se bornent à jouer la révolution pour éviter d’avoir à la faire. Ils ignorent par ailleurs la conception marxiste de la nation, oubliant que l’Etat national, la culture nationale, la démocratie nationale ou encore le droit national constituaient la forme spécifique de la démocratie et de la liberté pour des auteurs comme Marx et Engels, Lénine et Kautsky, Otto Bauer et Rudolf Hilferding. Pour ces derniers, le peuple et la nation ne pouvaient être dissociés. Ce défaut rend les altermondialistes incapables d’analyser la façon dont le capital financier et les grandes entreprises multinationales s’emploient, par la spéculation et la corruption, à faire éclater les cadres nationaux et à faire échapper leurs profits à tout contrôle de l’Etat. Dans de telles conditions, on peut très bien imaginer que certains milieux capitalistes ont tout intérêt à ce que se développe un altermondialisme qui contribue, lui aussi, à effacer les frontières. La vraie résistance, elle, passe par la libération nationale. »

Bernard Rabehl, écrivain et figure historique de l’extrême gauche allemande, interviewé par Eléments n°131, avril-juin 2009

Vers un Axe Berlin-Moscou?

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ARCHIVES de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

 

Vers un Axe Berlin-Moscou?

 

Même si leurs cultures et leurs évolutions historiques respectives ont été très différentes, la Russie et l'Allemagne ont depuis longtemps un point commun, celui de n'avoir qu'imparfaitement assimilé le modèle occidental moderne; face à celui-ci, les deux pays ont suivi des évolutions “anormales”, de formes et d'ampleurs très différentes. Au cours des deux siècles qui viennent de s'écouler, la conscience de soi dans ces deux pays a été confrontée à des phénomènes culturels et politiques dérivés d'une modernité qu'ils ont désirée ou refusée mais qui, dans tous les cas de figure, a germé dans des milieux substantiel­lement anglais ou français. Allemands et Russes ont donc perçu ces milieux comme fondamentalement étrangers à eux et les ont rejettés.

 

Ensuite, la différence entre l'Allemagne et la Russie est moindre qu'entre l'Allemagne et l'Occident sur les plans de la géopolitique et de la géoculture, si bien que l'on peut affirmer que les catégories intellectuelles élaborées par les Allemands pour répondre aux questions de l'identité nationale allemande peuvent être reprises et repensées sans problème majeur dans le contexte russe. Signalons notamment que, dès les slavophiles de la première génération, la pensée russe a fait sienne la nostalgie des conservateurs ro­mantiques allemands: une société traditionnelle, communautaire et organique qu'ils opposaient à la so­ciété moderne, mécanique, atomisée et désacralisée (c'est l'antinomie spenglérienne entre Kultur et Zivilisation, et celle de Tönnies entre la Gemeinschaft et la Gesellschaft). Les difficultés à assimiler cette modernité occidentale ont débouché en Allemagne et en Russie sur l'affirmation de deux systèmes totali­taires, qui, quoique de signes opposés, étaient tous deux fondés sur le refus du modèle politico-culturel de l'Occident.

 

Le totalitarisme allemand a été battu militairement. Après cette défaite, la partie occidentale de l'Alle­ma­gne a connu une intégration rapide et sans heurts dans les communautés européennes et dans le systè­me occidental. Le totalitarisme russe, en revanche, s'est désintégré de l'intérieur, victime de son échec politique total. Aujourd'hui, ces deux pays  —l'Allemagne réunifiée et la nouvelle Russie postsovié­tique—  sont à la recherche d'une identité nouvelle, d'un nouveau rôle à jouer: le premier le cherche en Europe, le second dans tout l'espace eurasiatique. Tous deux suscitent de l'inquiétude: l'Allemagne parce que son poids politique commence à égaler son poids économique; la Russie parce qu'elle est en­core une très grande puissance militaire et qu'elle est géopolitiquement instable.

 

En un certain sens, la montée en importance de l'une correspond au déclin de l'autre, du moins en Europe centrale et orientale. Mais ce processus ne semble pas induire de la conflictualité entre les deux pays, au contraire, on semble revenir à un meilleur équilibre dans leurs zones d'influence respectives. Depuis la dissolution de l'URSS et la chute du Mur de Berlin, les rapports germano-russes sont de plus en plus in­tenses parce qu'il y a désormais confluence objective de bon nombre de leurs intérêts géopolitiques et économiques.

 

une européanisation sur un mode allemand

 

Du reste, même si l'Allemagne et la Russie se sont retrouvée chaque fois dans des camps opposés au cours des deux guerres mondiales, il serait erroné de penser que leurs consciences nationales se sont, sous la dictée des événements, pensées brusquement en opposition irréductible l'une à l'autre. En fait les deux guerres mondiales ont interrompu momentanément des processus de profonde interaction politique et culturelle entre les deux pays, comme on avait pu l'observer aux XVIIIième et XIXième siècles. Au cours de cette période la Russie s'est européanisée essentiellement sur un mode allemand et protestant (du point de vue russe, c'est là un mode “occidental”), a entretenu des rapports étroits  —y compris dy­nastiques—  avec le monde germanique et a maintenu un rapport de solide complicité avec la Prusse, autre puissance bénéficiaire de la partition de la Pologne. Les affrontements germano-russes pendant les suicides européens de 1914-18 et de 1939-45 et dans le conflit idéologique entre national-socialisme et communisme stalinien sont des exceptions et non pas la norme dans les rapports germano-russes.

 

anti-occidentalisme et germanophilie

 

On ne sera dès lors pas surpris d'apprendre que dans les milieux nationalistes russes actuels les posi­tions anti-occidentales s'accompagnent souvent de fortes tendances germanophiles. On peut l'observer par exemple dans le programme géopolitique énoncé par Jirinovski, personnage qui, malgré ses écarts verbaux, n'est pas aussi confus et velléitaire qu'on pourrait le croire à première vue (1). Ses incohérences et ses improvisations ne doivent pas nous empêcher de discerner chez lui un programme géopolitique suffisamment clair, où il pose la Russie comme opposée à la Chine et au monde islamique (surtout turc), et envisage de s'allier en Europe avec l'Allemagne, à l'égard de laquelle Jirinovski  —comme beaucoup de Russes d'hier et d'aujourd'hui—  nourrit des sentiments complexes, où se mêlent la peur et l'admiration. Le projet de Jirinovski semble reprendre quelques-uns des points essentiels du Pacte Molotov-Ribbentrop d'août 1939, notamment ceux qui impliquent un partage entre l'Allemagne et la Russie de l'Europe centrale et orientale: division de la Pologne, absorption de l'Autriche, de la République Tchèque et de la Slovénie par l'Allemagne, des républiques baltes, de l'Ukraine, de la Biélorussie et de la Moldavie par la Russie (2).

 

En d'autres occasions, Jirinovski semble songer non pas à une partition pure et simple de ces territoires, mais à des zones d'influence bien définies. Quoi qu'il en soit, le “projet” nationaliste et panslaviste de Jirinovski tente de récréer, de concert avec l'Allemagne, les solides liens économiques et culturels qui, pendant deux siècles, avaient contribué au développement de la Russie; de cette façon, il reprend à son compte  —et très clairement—  la ligne de la politique impériale pré-révolutionnaire.

 

«Elementy» et l'eurasisme

 

Dans l'orbite du néo-nationalisme russe, nous trouvons une autre option pro-allemande, qui ne se réfère pas à la ligne idéologico-politique du panslavisme mais à une forme d'anti-occidentalisme extrême, l'eurasisme. Dans cette perspective, l'alliance stratégico-militaire entre la Russie et l'Allemagne est con­sidérée comme l'axe porteur d'un espace eurasiatique et continental opposé au monde atlantique. Cette thématique est centrale dans une revue comme Elementy, organe officiel du néo-eurasisme russe.

 

Dans le premier numéro de cette revue, on trouve le compte-rendu d'une table ronde qui a eu lieu en 1992 à Moscou à l'Académie d'Etat-Major russe sur le thème “La Russie, l'Allemagne et les autres”. Parmi les participants, outre quelques représentants de la “nouvelle droite” européenne, il y avait les Généraux Klokotov, Pichev et Iminov, qui, tous trois, enseignent à cette Académie. Tous les participants se sont dits convaincus de la nécessité d'un puissant tandem politique et militaire germano-russe pour stabiliser le continent européen (3).

 

Le troisième numéro d'Elementy  publie des réflexions sur le rôle de l'Allemagne dans une rubrique intitu­lée “Le bloc continental” (4), reprend un article de Moeller van den Bruck (1876-1925), figure centrale de la Révolution Conservatrice allemande après 1918 («L'Allemagne entre l'Europe et l'Occident»). Cet article affirme la spécificité culturelle allemande et insiste sur la nécessité d'avoir des liens privilégiés avec la Russie pour permettre à l'Europe de se soustraire au déclin provoqué par l'“occidentalisation” moderne (5).

 

les thèses du Colonel Morozov

 

Mais, toujours dans ce n°3 d'Elementy, l'article qui exprime au mieux cette nouvelle tendance germano­phile du néo-eurasisme russe, est celui du Colonel E. Morozov, intitulé «Les relations germano-russes: l'aspect géostratégique» (6). Pour le Colonel Morozov, le rapprochement germano-russe a des motifs his­toriques: depuis Pierre le Grand, on constate que quand les deux pays sont alliés, ils en tirent des avan­tages considérables. Et des motifs géopolitiques: l'un est au centre de l'Europe, l'autre au centre de l'Eurasie. Les difficultés d'un éventuel rapprochement germano-russe sont les suivantes: elles sont d'ordre psychologique, car Russes et Allemands se méfient les uns des autres depuis les deux conflits sanguinaires de ce XXième siècle; elles sont ensuite d'ordre stratégique: l'Allemagne s'étend vers l'Est, ce qui est inévitable vu la faiblesse des petits Etats qui “se situent entre Stettin et Taganrog et entre Tallin et la Crète”, et vu la crise actuelle que traverse la Russie. Mais l'expansion économique allemande ac­tuelle ne heurte pas fondamentalement les intérêts vitaux de la Russie. Ces difficultés doivent être sur­montées, d'après Morozov, en prenant conscience des énormes avantages stratégiques qu'une alliance entre les deux pays pourrait apporter, surtout dans la double perspective de redéfinir les espaces euro­péens et de redimensionner la présence américaine en Europe et le rôle global de Washington dans le monde.

 

De telles thèses sont largement diffusées dans les rangs de l'opposition nationale-communiste et dans les hautes sphères de l'armée; elles acquerront du poids, deviendront de plus en plus visibles, si la situa­tion politique oblige à renforcer ces secteurs-là de la société russe. Mais dans ce cas, il n'est pas dit que l'hypothétique nouvel axe germano-russe soit réellement praticable, à moins que l'Allemagne réunifiée décide d'abandonner la politique d'intégration européenne que la RFA avait suivie sans réticence depuis les années 50. Mais ça, c'est un autre problème.

 

Aldo FERRARI.

(article paru dans Pagine Libere, n°11-12/1995).

 

Notes:

(1) Cf. «Le mie frontiere», entretien de Vladimir Jirinovski avec Rolf Gauffin, in Limes, n°1/1994, pp. 25-32.

(2) Sur Jirinovski circule un essai récent, confus et prétentieux, rédigé par deux “spécialistes” se dissimulant derrière des pseudo­nymes. En trad. it.: G. Frazer & G. Lancelle, Il libretto nero di Zirinovskij, Garzanti, Milano, 1994.

(3) Cfr. Elementy, n°1/1992, pp. 22-25.

(4) Cfr. Elementy, n°3/1993, pp. 21-22.

(5) Ibidem, pp. 30-33.

(6) Cfr. Elementy, n°5/1994, pp. 26-30.

samedi, 26 septembre 2009

Iran, de dollar en de euro

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Iran, de dollar en de euro

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http://presstv.com/detail.aspx?id=106669&sectionid=351020102

Iran’s President Mahmoud Ahmadinejad has ordered the replacement of the US dollar by the euro in the country’s foreign exchange accounts.
The September 12 edict was issued following a decision by the trustees of the country’s foreign reserves, Mehr News Agency reported.
Earlier, the Islamic Republic of Iran had announced that the euro would replace the greenback in the country’s oil transactions. Iran has called on other OPEC members to ditch the sinking dollar in favor of the more credible euro.
Following the switch, the interest rate for the facilities provided from the Foreign Exchange Reserves will be reduced from12 to 5 percent.
Since being introduced by the European Union, the euro has gained popularity internationally and there are now more euros in circulation than the dollar.
The move will also help decouple Iran from the US banking system.

Iran’s President Mahmoud Ahmadinejad has ordered the replacement of the US dollar by the euro in the country’s foreign exchange accounts. The September 12 edict was issued following a decision by the trustees of the country’s foreign reserves, Mehr News Agency reported. Earlier, the Islamic Republic of Iran had announced that the euro would replace the greenback in the country’s oil transactions. Iran has called on other OPEC members to ditch the sinking dollar in favor of the more credible euro.

Following the switch, the interest rate for the facilities provided from the Foreign Exchange Reserves will be reduced from12 to 5 percent. Since being introduced by the European Union, the euro has gained popularity internationally and there are now more euros in circulation than the dollar. The move will also help decouple Iran from the US banking system.

Als u zich afvraagt waarom de V.S.A het op Iran gemunt hebben, dit is één van de hoofdredenen. Heel de retoriek over het gevaar van raketten heeft te maken met het scheppen van een anti-Iransfeer. Want als je nadenkt over die Iraanse “rakettendreiging” is dat niet meer dan onzin. Iran overleeft voor een zeer groot deel van de olie-export naar het Westen. Zodra er ook maar één Iraanse raket richting Europa vliegt, stort heel hun economie in.

En natuurlijk is Iran nu bezig met het versterken van hun leger. Ze hebben genoeg lessen getrokken uit Irak, dat ironisch genoeg kort voor de Amerikaanse inval bezig was met het overschakelen naar de Euro voor de olie-industrie. Komt daar nog eens bij, als Iran een kernwapen ontwikkelt, dan is het omdat ze lessen hebben getrokken uit Noord-Korea die met rust gelaten worden vanwege die kernwapens.

L'axe paneuropéen Paris Berlin Moscou

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L’axe paneuropéen Paris – Berlin – Moscou

En 2002 sortait Paris – Berlin – Moscou par Henri de Grossouvre (1). Un an après, l’actualité semblait avaliser cette perspective avec le refus de la France, secondée par l’Allemagne et la Russie, de cautionner l’aventure étatsunienne en Irak. Cependant, l’invasion de ce pays, puis l’arrivée à la Chancellerie et à l’Élysée d’atlantistes patentés avortèrent cet axe embryonnaire et surtout de circonstance. Sept ans plus tard, Marc Rousset relance le concept qui présente l’avantage de dépasser à la fois le strict souverainisme national et l’utopie mondialiste.

Imposant, l’ouvrage est aussi stimulant. Nourri par les lectures d’Yves-Marie Laulan, Samuel Huntington, Julien Freund, Carl Schmitt, Alain de Benoist, Régis Debray, Emmanuel Todd, etc., Marc Rousset prend note de l’échec essentiel de la présente construction européenne et offre une alternative : l’axe paneuropéen Paris – Berlin – Moscou.

La Françallemagne ou le chaos multiculturel


Hostile à l’adhésion turque, l’auteur s’inquiète de la sous-natalité des Européens et de son terrible corollaire, l’immigration extra-européenne de peuplement. Pour lui, les petits égoïsmes nationaux devraient s’estomper au profit d’une réconciliation des « deux poumons » de l’Europe : l’ensemble occidental romano-protestant et son pendant oriental orthodoxe. L’auteur de La nouvelle Europe de Charlemagne (1995) conçoit l’Europe de l’Ouest comme un espace « néo-carolingien » organisé autour d’une unité politique étroite entre Paris et Berlin. Marc Rousset veut la Françallemagne. « Y aura-t-il un jour un État franco-allemand comme il en fut naguère de l’Autriche-Hongrie ? La France et l’Allemagne constituent une continuité spatiale de plus de cent quarante millions d’habitants. La restauration de l’espace communautaire franc est la tâche dévolue tant aux Français qu’aux Allemands. Elle est la condition préalable à toute unité européenne […]. La France et l’Allemagne sont liées par une Schicksalgemeinschaft, une “ communauté de destin ”, affirme-t-il » (p. 133) (2). Plus loin, il ajoute sans hésiter qu’« il n’y a que la Françallemagne augmentée éventuellement de l’Italie, de l’Espagne, des États de Bénélux et de l’Autriche pour présenter un bloc suffisamment homogène, puissant et crédible, capable de s’appuyer ou de s’allier avec la puissance russe » (p. 532).

Or l’homogénéité ethnique, gage et/ou facteur de la puissance selon l’auteur, est-elle encore possible quand on connaît la déliquescence multiraciale de nos sociétés ? « Une société multi-ethnique conduit tout droit inexorablement, au mieux à des troubles et des affrontements, au pire au chaos et à la guerre civile, car il lui manque la philia, la fraternité sincère, réelle et profonde entre les citoyens » (p. 523), observe-t-il avec lucidité. Une France européenne ne présuppose-t-elle pas au préalable le retour au pays massif et inconditionnel des allogènes ?

Marc Rousset dénonce avec raison l’islamisation du continent, mais il ne voit pas que ce phénomène n’est que la conséquence inévitable de l’immigration. Plus grave, l’auteur reproduit sur l’islam les lieux communs les plus banaux. Il apporte son soutien à Robert Redeker, grand contempteur naguère du mouvement national. Il assimile l’islamisme à un « nouveau totalitarisme » (p. 300) ou à un « fascisme vert » (p. 301), ce qui est erroné et préjudiciable. Le concept de totalitarisme fait l’objet de discussions animées au sein de la communauté historienne. Quant à assimiler l’islamisme au fascisme, n’est-ce pas s’incliner devant l’« antifascisme » obsessionnel et perdre  la bataille du vocabulaire ? Enfin, vouloir, à la suite de quelques musulmans « éclairés », un « islam des Lumières » (p. 290), n’est-ce pas une ingérence dans une matière qui n’intéresse pas au premier chef les Européens ? Est-il vraiment indispensable de promouvoir la modernisation et/ou l’occidentalisation de l’islam, c’est-à-dire la contamination de cette religion par le Mal moderne, matérialiste et individualiste ?

L’économie comme instrument de la puissance

La dépression démographique n’est pas le seul défi à une possible entente paneuropéenne. Suivant le prix Nobel d’économie Maurice Allais, l’auteur conteste le libre-échange et la mondialisation, la « fuite des cerveaux » et la désindustrialisation. Il rappelle qu’« avec la délocalisation de son tissu industriel et depuis peu de ses services informatiques et de gestion, l’Europe perd chaque année des centaines de milliers d’emplois. Ce furent d’abord les emplois les moins qualifiés. Ce sont aujourd’hui des métiers à haute technicité qui sont externalisés vers l’Asie » (p. 49). Il s’effraie par ailleurs de la généralisation des emplois précaires du fait de la concurrence exacerbée planétaire aussi bien là-bas où le pauvre hère travaille dix heures par jour pour un salaire misérable qu’ici avec la pression exercée sur les rémunérations par les étrangers clandestins délinquants réduits en esclavage par un patronat immonde. Il craint en outre que l’essor des services à la personne ne soit « favorisé [que] par le contexte d’inégalité sociale croissante » (p. 55). Bref, « il est vital pour l’Europe de ne pas rester à l’écart du monde industriel moderne, de concevoir un développement industriel fort, créateur d’emplois pour la prochaine génération, d’assurer un renouvellement de son tissu manufacturier » (p. 56), clame  cet ancien directeur général chez Aventis, Carrefour et Veolia.

Cependant, l’industrie et le tertiaire à haute valeur ajoutée ne doivent pas mésestimer la caractère stratégique de l’agriculture. À rebours des thèses sociologiques du cliquet ou d’un secteur agricole surproductiviste et sans presque de paysans, on a la faiblesse de croire qu’une économie humainement satisfaisante suppose un équilibre entre les secteurs primaire, secondaire et tertiaire. Les questions agricole et nutritionnelle sont en passe de devenir des enjeux majeurs du XXIe siècle. Avec la maîtrise de l’eau douce et le contrôle des ressources naturelles énergétiques, la quête de terres arables devient une priorité, car elles sont à l’origine, par l’auto-suffisance qu’elle induit, de la souveraineté alimentaire. Signalons que dans cette recherche bientôt éperdue, l’Europe détient un atout considérable avec les immenses Terres noires fertiles de Russie et, surtout, d’Ukraine (3). Ce simple fait inciterait l’Europe, la France et l’Allemagne, à régler en arbitres le contentieux entre Moscou et Kiyv afin de rendre effective une entente géopolitique respectueuse de tous les peuples.

Surmonter les querelles nationales !


Concernant les relations entre l’Ukraine et la Russie, notre désaccord est total avec Marc Rousset. S’appuyant sur l’historiographie conventionnelle française, il mentionne la « Russie de Kiev » alors que le terme « Russie » n’apparaît qu’en 1727. Il aurait été plus juste de parler de « Rous’ » ou de « Ruthénie ». Certes, « pour les Russes, l’Ukraine est une partie intégrante de la Russie, une simple annexe de Moscou » (p. 363). Cela implique-t-il de nier l’existence du peuple ukrainien ? Marc Rousset le pense puisqu’il affirme que « l’identité ukrainienne n’existe pas. Cette identité, exception faite de la Galicie, est une variante de l’identité russe et non une nationalité constituée qui s’interposerait durablement entre Russie, Pologne et Slaves du    Sud » (p. 367). Ignore-t-il que la langue ukrainienne s’est formalisée deux décennies avant la langue russe ? L’auteur se fourvoie quand il explique que « le russe et l’ukrainien sont si proches que deux locuteurs parlant chacun sa langue se comprennent sans interprète » (p. 367). Autant écrire qu’un Castillan et un Catalan se comprennent sans mal… relevons une autre erreur : « à Kiev, il est difficile de trouver un panneau autre qu’en russe » (p. 366). En réalité, l’ukrainien domine largement l’espace public de la capitale de l’Ukraine. Sait-il enfin que les dirigeants de la « Révolution orange », Viktor Iouchtchenko et Yulia Timochenko, viennent des confins orientaux, russophones, du pays et non de Galicie ?

L’axe paneuropéen ne pourra pas faire l’économie d’une résolution équitable et sereine des lancinantes questions nationalitaires inter-européennes. La nouvelle Europe Paris – Berlin – Moscou compenserait la complexe problématique impériale russe. Les Russes n’ont toujours pas fait le deuil de leur empire, tsariste puis soviétique, d’où cette politique agressive envers l’étranger proche (4) qui, par méfiance, se place sous la protection illusoire de l’O.T.A.N. Le projet paneuropéen de puissance transcenderait la frustration légitime de nos amis russes en un salutaire désir de renaissance géopolitique tant pour la Russie que pour les Allemands et les Français.

Comment alors acquérir cette puissance ? Force est de constater qu’à part les Russes, Français et Allemands ne se préoccupent guère de ce sujet. Le confort émollient de la Modernité les châtre psychologiquement. L’héroïsme est dévalorisé, remplacé par l’héroïne. En Afghanistan, les soldats allemands protestent contre leurs conditions de vie qu’ils jugent trop sommaires. Plus de soixante ans de rééducation mentale commencent à se payer et l’addition sera lourde. On aboutit au même constant en France. Le salut viendrait-il de la guerre économique mondiale ? En effet, le « nouveau continent » appliquerait la préférence communautaire, l’autarcie des grands espaces, le patriotisme économique et une coopération franco-germano-russe fort intense. « Il est temps que la France, l’Allemagne et la Russie coopèrent davantage pour de grands projets dans de nombreux d’une façon volontariste, que l’Eurosibérie se décide à enrayer son déclin, que les jeunes Européens désabusés, à l’égoïsme matérialiste hypertrophié, sortent de la torpeur passive et annihilante de la société de consommation futile et frustrante avec ses gadgets inutiles et loufoques, de l’idéologie américaine de la marchandise passion avec l’argent pour seul horizon, se guérissent d’une certaine forme de sida mental conduisant au renoncement à leur identité propre, à un idéal, au dépassement de soi » (p. 12). De ce fait, face à la montée des périls vitaux, « les Européens doivent […] se tourner vers les occidentalistes de la Russie, pousser les feux d’une réconciliation russo-ukrainienne et russo-géorgienne en lieu et place de la gifle inacceptable, du casus belli, que représenterait pour la Russie l’entrée de l’Ukraine et de la Géorgie dans l’O.T.A.N. » (p. 527).

Quel avenir pour le continent paneuropéen ?


L’enjeu est considérable. « L’Europe doit-elle être simplement un sous-ensemble d’un empire transatlantique à direction américaine, ou est-elle, au contraire, un moyen pour les nations européennes de contrebalancer, avec l’aide de la Russie, les menaces […] ainsi que le poids de “ l’Amérique-monde ” ? L’Europe occidentale doit-elle, tel un paquet bien ficelé, continuer à être intégrée au One World dirigé depuis Manhattan ? » (p. 12). Anxieux, Marc Rousset se demande si l’idée européenne « serait un moyen de créer enfin cette “ Troisième Rome ” dont ont toujours rêvé séparément la France, l’Allemagne et la Russie » (p. 198). « Cette Eurosibérie, prévient-il, serait véritablement indépendante, ne menacerait personne, mais personne également, que ce soit la Chine, les États-Unis ou l’Islam ne pourrait non plus véritablement indépendante la menacer. C’est pourquoi la France et l’Allemagne devraient remodeler l’architecture européenne en concertation avec la Russie » (pp. 198 – 199).

Dans ce plaidoyer se retrouve l’impératif démographique. Marc Rousset rappelle que l’Extrême-Orient russe est un quasi-désert humain tandis que sur l’autre rive de l’Amour vivent des millions de Chinois. Une alliance avec la Françallemagne renforcerait la Russie face à Pékin. « Un droit à l’occupation doit donc être reconnu aux peuples européens sur l’espace allant du nord du Portugal au détroit de Behring, en incluant le Nord-Caucase et la totalité de l’espace sibérien. Sur cet espace, cinq cents millions d’Européens et cent cinquante millions de Russes devraient pouvoir prolonger jusqu’à Vladivostok les frontières humaines et culturelles de l’Europe » (p. 46).

Il importe néanmoins de ne pas confondre les thèses de Marc Rousset avec les visions de Guillaume Faye ou les ratiocinations d’Alexandre Del Valle. « Nous croyons en l’Eurosibérie comme un simple concept géographique, mais en aucun cas à un empire eurosibérien qui aurait pu être réalisé par l’U.R.S.S. si elle avait gagné la Guerre froide et occupé l’Europe de l’Ouest. L’Eurosibérie de facto et de jure avec une seule capitale ne peut être réalisée que par une nation dominante disposant des ressources militaires, humaines et naturelles nécessaires, ce qui n’est le cas aujourd’hui d’aucune nation européenne, Russie incluse » (p. 532).

Dans ce cadre grand-européen, quelle en serait la langue institutionnelle et véhiculaire ? Sur ce point, M. Rousset surprend ! Il dénie tout droit à l’anglais d’être la lingua franca de l’Europe-puissance. Il soutient le multilinguisme, mais se détourne des langues vernaculaires, ce qui est dommage. Est-il partisan du retour au latin ? A priori oui, mais, après un examen minutieux, il l’estime inadapté à notre époque. Le français aurait-il toute sa chance comme le suggéra naguère l’archiduc Otto de Habsbourg-Lorraine ? Ce serait l’idéal parce que la langue de Stendhal est réputée pour sa richesse, sa clarté et son exactitude. Marc Rousset craint néanmoins qu’on accuse la France d’impérialisme linguistique. Il se déclare finalement favorable à l’espéranto. Envisagé comme une langue universelle, l’espéranto est surtout une marque du génie européen. Il serait une langue utilitaire européenne appropriée qui ne froisserait aucune susceptibilité linguistique tant nationale que régionale. On ne peut que partager ici son raisonnement.

La nouvelle Europe sur terre et… sur mer !


Le destin de la nouvelle Europe Paris – Berlin – Moscou serait-il uniquement continental, terrien ? Marc Rousset n’en doute pas et reprend à son compte la célèbre dichotomie géopolitique entre la Terre et la Mer. Or l’Union européenne dispose d’un domaine d’Outre-mer (dont de nombreux archipels non peuplés), ce qui en fait potentiellement la première puissance maritime au monde. Il est fâcheux que l’auteur accepte cette opposition désormais classique, mais fallacieuse. Non, la France n’est pas qu’une « nation terrienne » (p. 36) ! Au-delà des succès navals de Louis XVI et des échecs en mer de Napoléon Ier, rappelons  que l’amiral Darlan joua un rôle capital  dans la création d’une remarquable flotte de guerre à la fin de la IIIe République. Des remarques similaires s’appliquent à la Russie qui dispose d’une immense façade littorale arctique prise jusqu’à maintenant plusieurs mois par an par les glaces. Mais si le fameux « réchauffement climatique » se manifestait, la Russie ne deviendrait-elle pas de fait une puissance navale ? Songeons déjà qu’au temps de l’Union soviétique, les navires de l’Armée rouge patrouillaient sur toutes les mers du globe, preuve manifeste d’une indéniable volonté thalassocratique…

Il ne faut pas que ces quelques critiques gâchent le thème central de l’essai de Marc Rousset. Il a écrit, il y a neuf ans, Les Euroricains qui était un cri d’alarme contre la « yanquisation » du « Vieux Monde ». À cette colonisation globale, il apporte maintenant une solution envisageable à la condition que les hommes politiques saisissent le Kairos et que s’établisse sur tout notre continent une communion d’esprit bien aléatoire actuellement. Le dilemme est posé : nos contemporains accepteront-ils d’être des sujets transatlantiques ou bien des citoyens paneuropéens ? Accepteront-ils l’abêtissement ou le redressement ? Comprendront-ils enfin que la France et l’Europe, que nos nations et l’Europe ne s’opposent pas, mais se complètent ? Louis Pauwels concluait son « Adresse aux Européens sans Europe » par cette évidence : « Qui s’étonnerait, à y bien regarder, du peu de patriotisme de la jeunesse française ? Trop peu d’Europe éloigne de la patrie. Beaucoup d’Europe y ramène. Ils seront patriotes quand nous serons européens. » (5)

Georges Feltin-Tracol

Notes


1 : Henri de Grossouvre, Paris – Berlin – Moscou. La voie de l’indépendance et de la paix, L’Âge d’Homme, 2002.

2 : On peut dès lors très bien imaginer que Strasbourg devienne la capitale françallemande, ce qui faciliterait le transfert à Bruxelles de toutes les institutions européennes.

3 : L’Arabie saoudite vient ainsi d’acquérir en Ukraine des milliers d’hectares de terres fertiles.

4 : On appelle « l’étranger proche » les États issus de l’éclatement de l’U.R.S.S. et que le Kremlin considère comme son aire d’influence traditionnelle.

5 : Louis Pauwels, Le droit de parler, Albin Michel, 1981.

• Marc Rousset, La nouvelle Europe Paris – Berlin – Moscou. Le continent paneuropéen face au choc des civilisations, Godefroy de Bouillon, 2009, 538 p., préface de Youri Roubinski, 37 €.

vendredi, 25 septembre 2009

Insécurité: un socialiste brise le tabou du laisser-faire

Insécurité :

un socialiste brise le tabou du laisser-faire

Ex: http://unitepopulaire.org/ 

 

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« Nous avons longtemps passé pour un pays à faible criminalité, ce qui était encore vrai il y a vingt ou trente ans. Mais les choses ont bien changé, et en mal. En matière de violence dans les rues, nous avons, sinon dépassé, du moins rattrapé nos voisins. […]

La différence de traitement que nous réservons aux délinquants selon qu'ils sont mineurs ou majeurs fait de la Suisse un cas tout à fait à part sur le plan international ! […] Toutes les statistiques, celles de la police comme celles des cliniques et des assurances montrent clairement qu'il y a augmentation et aggravation de la violence. Cette hausse commence surtout dans les années 90, quand nous avons clairement réorganisé notre temps libre pour devenir une société qui tourne vingt-quatre heures sur vingt-quatre. […] La vie nocturne a ainsi évolué de façon extrême ces vingt dernières années. Et les études le montrent clairement: les jeunes qui passent régulièrement leur temps dehors, soit en moyenne quatre heures ou plus par jour, commettent six fois plus d'actes de violence que ceux qui ne passent qu'une demi-heure ou une heure dehors.

Les années 90 correspondent aussi à la fin du rideau de fer en Europe. Sa chute a entraîné un changement dans la direction des flux migratoires vers la Suisse. […]. Les années 90 correspondent aussi à un autre changement d'importance : l'avènement de l'ordinateur dans les foyers. Avec son arrivée, puis celle des portables, les parents ont perdu tout contrôle sur la consommation médiatique de leurs enfants. […] Les personnes qui consomment souvent des vidéos ou des jeux violents commettent beaucoup plus d'actes de violence que les autres. La corrélation est probante, mais la causalité l'est moins. En d'autres termes: ceux qui consomment des vidéos violentes le font-ils parce qu'ils ont une propension naturelle à la violence ou deviennent-ils violents parce qu'ils consomment ces vidéos ? Je crains hélas que la recherche ne parvienne jamais à répondre à cette question. […]

Entre 1992 et 2006, le nombre de parents qui fixent une heure de rentrée à leurs enfants reste constant: plus de 80% des parents le font. Mais les enfants de 2006 respectent beaucoup moins cette exigence. Ceux qui disent ne jamais la respecter ou rarement sont 6% en 1992. Et 28% en 2006 ! C'est un sacré changement ! Etre parent, aujourd'hui, c'est beaucoup plus difficile qu'il y a vingt ou trente ans. En fait, si la violence augmente, ce n'est pas à cause d'une dégénérescence de la nature humaine, mais d'un changement global de l'environnement social. A un certain moment, nous avons voulu tout libéraliser, tout laisser aller, c'était très à la mode... […] Une certaine gauche a le sentiment, surtout depuis 1968, qu'elle est d'abord là pour combattre tout ce qui ressemble à de la répression. Or, sans structures, une société ne peut pas fonctionner. Il n'y a pas de prévention sans répression. »

 

 

Martin Killias, criminologue, professeur à l’Université de Zürich, membre du Parti Socialiste, interviewé par L’Illustré, 15 juillet 2009

jeudi, 24 septembre 2009

Pour un grand espace européen! Sans libre-échange!

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Thorsten HINZ:

 

Pour un grand espace européen ! Sans libre-échange!

 

Oui à l’Europe ! Non aux eurocrates de Bruxelles !

Le continent a besoin d’une nouvelle volonté de puissance !

 

Le jugement rendu à Karlsruhe récemment, à propos du Traité de Lisbonne a le mérite de la  clarté: le “Sur-Etat”, qui nous tient sous sa tutelle, et dont les gouvernements et les bureaucrates bruxellois visent le parachèvement, n’est pas sanctionnable comme s’il émanait d’un jugement de Dieu. Nous ne sommes pas contraints de l’accepter. Mais survient alors une autre question fondamentale: celle de l’avenir de l’Europe. Le jugement de Karlsruhe n’a en aucune façon réglé ce problème-là, n’a pas tranché la question de savoir si l’Europe et l’eurocratisme bruxellois sont une seule et même chose.

 

Un simple regard sur la carte, sur les statistiques, sur les rapports de forces et autres ordres de grandeur nous fait voir, sans détours, que les Etats de petites et moyennes dimensions en Europe ne peuvent freiner leur perte de signification à l’échelle du globe que s’ils agissent de concert. D’autres faits sont également patents: les anciens conflits entre Etats européens s’atténuent graduellement, de nouveaux conflits d’intérêts émergent, mais plus aucun de ceux-ci n’est encore existentiel. Si on les mesure à l’échelle du globe, les convergences d’intérêts entre Européens dominent et les divergences passent à l’arrière-plan. 

 

Constituer une puissance hégémonique continentale est un souci, voire un cauchemar, qui hante depuis plus d’un siècle la politique intérieure du sous-continent européen, même si cela peut paraître anachronique face à la domination mondiale qu’exercent les Etats-Unis et à l’émergence de nouveaux centres de puissance en Asie. Se précipiter encore dans des conflits intérieurs à l’Europe et, de surcroît, à l’incitation de puissances extra-européennes, n’aurait qu’un résultat: accroître la puissance des autres et pérenniser la mise sous tutelle de l’Europe.

 

La crise financière et économique, qui frappe la planète entière, nous apporte quelques arguments supplémentaires en faveur d’une européanisation de la politique en Europe.  Cette  crise a déjà conduit à réévaluer les phénomènes liés à la globalisation. Bien entendu, soyons  clairs, on ne pourra pas réduire à néant les acquis de la globalisation qui a commencé il y a plus de 500 ans par la découverte, l’exploitation et la colonisation du monde par les puissances européennes; cependant, la globalisation ne pourra plus rester, désormais, un but en soi, une idée que personne ne pourra jamais contester. Au cours de ces récentes années, il semblait que la tâche principale des Etats ne consistait plus qu’en une seule chose: se déréguler eux-mêmes, renoncer à toutes leurs fonctions de contrôle et de direction. Capitaux et marchandises devaient s’écouler et vagabonder en toute liberté; la vie humaine, elle, devait se réduire à une existence d’abeilles besogneuses, acceptant la “flexibilité”, en concurrence avec des homologues tout aussi aliénées dans le monde entier. On planifiait une guerre de tous contre tous, dernière conséquence de la victoire totale qu’avait obtenue le modèle anglo-saxon de libre-échange après deux guerres mondiales et une guerre froide. 

 

Il y a deux ans encore, on ne faisait aucun effort intellectuel pour justifier ce modèle: il portait sa légitimité en lui-même. Ceux qui osaient encore le critiquer étaient traités d’incorrigibles passéistes, de réactionnaires, de bornés, de nationalistes, d’anti-modernes, d’ennemis de la liberté, etc. On les ridiculisait. Et voilà que soudain, la charge de la preuve a changé de camp. L’idéologue français Emmanuel Todd, dans “Après la démocratie”, constate “qu’il faudra soit abolir le suffrage universel et renoncer ainsi à la démocratie soit limiter le libre-échange, par exemple en inventant des formes intelligentes de protectionnisme au niveau continental européen, ce qui impliquerait de remettre en question le système économique actuellement dominant”.

 

La proximité conceptuelle entre le protectionnisme que Todd appelle de ses voeux et l’ébauche d’un “grand espace” continental chez le juriste allemand Carl Schmitt est patente. Pour l’Europe actuelle, l’enjeu n’est pas seulement la démocratie mais porte sur l’ensemble de ses traditions historiques et culturelles, ancrées sur son territoire. Tout néo-protectionnisme européen émergent ne devra pas se limiter au seul domaine de l’économie. Sur les plans politiques et éthiques aussi, la logique du libre-échange devra être jugulée. Avant toute chose, l’Europe devra renoncer à l’universalisme contenu dans ce discours idéologique et banalisé sur les droits de l’homme qui sert de vulgate générale. Cet universalisme avait accompagné l’expansion économique et coloniale des pays d’Europe occidentale mais il a atteint ses limites aujourd’hui (que l’on songe à la Chine...). Aujourd’hui, cet universalisme ne sert plus qu’à une chose: sur les plans politique, moral et juridique, à donner un instrument de pression potentiel à des cultures ou des religions extra-européennes, étrangères au continent européen, pour que celles-ci, à leur tour, mettent en oeuvre une stratégie d’expansion en Europe même. Sur le plan des droits de l’homme, l’Europe a aussi besoin d’un protectionnisme qui entraînerait de donner priorité et protection aux propres citoyens européens dans leur propre “Maison commune”.

 

C’est pourquoi l’Europe politique future doit s’édifier sur des bases nouvelles, historiques, intellectuelles, culturelles et spirituelles. Car l’universalisme mis en pratique par les eurocrates en poste à Bruxelles est lié étroitement aux mythes fondateurs de l’Union Européenne. Celle-ci, en effet, considère que l’année 1945 constitue un point de départ historique et que les Etats-Unis, avec la forme de libéralisme et de libre-échange qu’ils ont importée dans leur zèle missionnaire, ont été les sauveurs de l’Europe.

 

Ces positions signifient ipso facto de fonder moralement l’UE sur la victoire emportée sur le pays qui a dû, doit et devra contribuer le plus aux charges financières en vue de structurer le grand espace européen et qui constitue, de surcroît, le pays le plus indispensable de tous à la formation de l’Europe! Par conséquent, tous les autres partenaires de la construction européenne en arrivent à considérer que les contributions allemandes sont des “réparations” à payer pour cause de deuxième guerre mondiale au lieu de les considérer comme des investissements pour un futur commun à bâtir de concert et dans lequel, eux aussi, auraient la responsabilité et le devoir de contribuer à l’intérêt collectif. 

 

En Allemagne, ce malentendu a conduit à une grande lassitude à l’égard de l’Europe: les Allemands, en effet, se sentent grugés et exploités; ils ont l’impression qu’on les maltraite, qu’on exige trop d’eux, tandis que l’élite qui fait fonctionner leur pays accepte pour eux le rôle du financier unique pour maintenir la cohésion d’un tout désormais branlant alors même que cette élite n’est plus capable de lancer des initiatives politiques en faveur de l’Europe. Les Allemands ont expurgé leur passé jusqu’à satiété, placé partout des garde-fous pour que plus  aucun dérapage nationaliste ne soit possible: les autres partenaires de l’UE, en cette matière, en ont fait trop peu.

 

La distance temporelle qui nous sépare aujourd’hui des événements de la seconde guerre mondiale doit nous amener à interpréter la tragédie européenne du 20ème siècle comme une auto-destruction collective, où tous ont eu leur part! Cette auto-destruction procède d’erreurs de jugement sur la situation réelle de l’Europe, au sein même du continent et en dehors de lui, notamment sur une évaluation erronée de l’influence globale qu’exerçait le Vieux Continent. Les  bénéficiaires de ces erreurs de jugement ont été la Russie soviétique et les Etats-Unis, deux puissances étrangères à l’espace européen. Si une nouvelle tragédie de même ampleur devait frapper l’Europe demain, d’autres bénéficiaires en tireraient profit et les conséquences en seraient, cette fois, irréversibles.

 

Si l’Europe ne formule pas bien vite une volonté de puissance commune et la défend de manière crédible, elle ne pourra pas opposer un modèle alternatif au libre-échange actuel. Or le contraire se profile à l’horizon: comme les mythes fondateurs de l’UE sont une fatalité, ils invitent les puissances extérieures à appuyer et favoriser les tensions intérieures en Europe, à les exploiter, à les pérenniser. Derrière l’accord britannique à une adhésion turque se profile l’intention de réduire l’idée européenne à n’être plus rien d’autre qu’une simple acceptation du libre-échange: l’Europe ne serait donc pas un bloc géopolitique autonome, structurée par une identité autochtone, mais une vague zone de libre-échange. La Pologne, la République Tchèque ou l’Italie, qui soutiennent, elles aussi, le désir des Turcs d’adhérer à l’UE, se réjouissent du coup de Jarnac qu’elles infligent ainsi à l’Allemagne et se vantent d’être les partenaires les plus féales des Etats-Unis, procurant du même coup, à ceux-ci, une sorte de levier d’Archimède pour disloquer l’unité européenne.

 

Une Europe qui reposerait sur de nouvelles bases politiques et spirituelles, qui considérerait que ses formes culturelles et ses modes de vie valent la peine d’être protégés, une Europe qui se montrerait prête à assurer sa défense, deviendrait, aux yeux des Allemands, un objectif digne d’être réalisé et justifierait les paiements disproportionnés qu’ils paient pour l’édification européenne. Mais, dans ce domaine, nous ne devons pas nous limiter aux seuls questions financières.

 

Voilà pourquoi, nous devons dire “oui” à l’Europe et, dans certaines conditions, à l’UE, mais uniquement si elle constitue une tentative de donner forme au continent. Mais nous devons dire “non”, et cela de manière décisive et tranchée, à la domination des bureaucrates et des idéologues fumeux qui pontifient à Bruxelles!

 

Thorsten HINZ.

(article paru dans “Junge Freiheit”, n°34/2009; trad.  franç.: Robert Steuckers). 

mercredi, 23 septembre 2009

Lettre ouverte à Hervé Morin, ministre de la Défense euro-atlantiste

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Lettre ouverte à Hervé Morin,

ministre de la Défense euro-atlantiste

 

 

 

Monsieur le ministre de la Défense de l’Occident,

 

 

 

 

Je m’autorise de vous interpeller avec un titre erroné puisque, renouant avec une mauvaise habitude pratiquée sous le septennat giscardien, le terme « nationale » a été supprimé de l’intitulé officiel de votre ministère. Permettez-moi par conséquent de vous désigner tour à tour comme le ministre de la Défense euro-atlantiste ou celui de la Défense de l’Occident, tant ces deux appellations me paraissent vous convenir à merveille.

 

 

 

Si je vous adresse aujourd’hui la présente algarade, sachez au préalable que je ne vise nullement l’élu local normand que vous êtes par ailleurs. L’adhérent au Mouvement Normand que je suis soutient, tout comme vous, l’indispensable (ré)unification normande des deux demi-régions. Notre désaccord concerne l’avenir de la France, de son armée et de l’Europe de la défense.

 

Je vous dois d’être franc. Quand en mai 2007, vous avez été nommé au ministère de la rue Saint-Dominique, j’ai immédiatement pensé à une erreur de recrutement : vous n’êtes pas fait pour occuper ce poste, faute d’une carrure suffisante. Comment cela aurait pu être autrement avec un Premier ministre qui, lui, est un fin connaisseur de la chose militaire depuis de longues années ? Il s’agissait surtout de vous récompenser pour avoir abandonné (trahi, diraient de mauvaise langues) entre les deux tours de la présidentielle votre vieil ami François Bayrou et rallié le futur président.

 

 

 

D’autres, tout aussi non préparés aux fonctions de ce ministère éminemment régalien, auraient acquis au contact des militaires une stature politique afin de viser, plus tard, bien plus haut. Hélas ! Comme l’immense majorité de vos prédécesseurs depuis 1945, voire depuis l’ineffable Maginot, et à l’exception notable d’un Pierre Messmer, d’un Michel Debré ou d’un Jean-Pierre Chevènement, vous êtes resté d’une pâleur impressionnante. Pis, depuis votre nomination, vous avez démontré une incompétence rare qui serait risible si votre action ne nuisait pas aux intérêts vitaux de la France et de l’Europe.

À votre décharge, je concède volontiers qu’il ne doit pas être facile de diriger un tel ministère à l’ère de l’« omniprésidence omnipotente » et de sa kyrielle de conseillers, véritables ministres bis. Faut-il en déduire qu’une situation pareille vous sied et que vous jouissez en fait des ors de la République ?

 

 

 

Je le croyais assez jusqu’à la survenue d’un événement récent. Depuis, j’ai compris que loin d’être indolent, vous effectuez un véritable travail de sape, pis une œuvre magistrale de démolition systématique qui anéantit quarante années d’indépendance nationale (relative) au profit d’une folle intégration dans l’O.T.A.N. américanocentrée, bras armé d’un Occident mondialiste globalitaire.

 

 

Vous vous dîtes partisan de la construction européenne alors que vous en êtes l’un de ses fossoyeurs les plus déterminés. L’Europe, sa puissance sous-jacente, ses peuples historiques vous indiffèrent, seule compte pour vous cette entité despotique de dimension planétaire appelée « Occident ».

 

 

 

Qu’est-ce qui m’a dessillé totalement les yeux en ce 6 février 2009 ? Tout simplement votre décision inique et scandaleuse de congédier sur le champ Aymeric Chauprade de son poste de professeur au Collège interarmées de Défense (C.I.D.). Brillant spécialiste de géopolitique, Aymeric Chauprade présente, dans un nouvel ouvrage Chronique du choc des civilisations, des interprétations alternatives à la thèse officielle des attentats du 11 septembre 2001. Exposer ces théories « complotistes » signifie-t-il obligatoirement adhérer à leurs conclusions alors qu’Aymeric Chauprade, en sceptique méthodique, prend garde de ne pas les faire siennes ?

 

 

 

Peu vous chaut l’impartialité de sa démarche puisque, sur l’injonction du journaliste du Point, Jean Guisnel, auteur d’un insidieux article contre lui, vous ordonnez son exclusion immédiate de toutes les enceintes militaires de formation universitaire. Mercredi dernier – 11 février -, l’infâme Canard enchaîné sortait une véritable liste d’épuration en vous enjoignant d’expulser d’autres intervenants rétifs au politiquement correct. Auriez-vous donc peur à ce point (si je puis dire) de certains scribouillards pour que vous soyez si prompt à leur obéir, le petit doigt sur la couture du pantalon ? Faut-il comprendre que Jean Guisnel et autres plumitifs du palmipède décati sont les vrais patrons de l’armée française ?

 

 

 

Avez-vous pris la peine de lire l’ouvrage incriminé ? Votre rapidité de réaction m’incite à répondre négativement. Il importe par conséquent de dénoncer votre « attitude irresponsable, irrespectueuse et indigne », car « nier la réalité est une attitude particulièrement inquiétante pour un ministre et qui n’atteste pas du courage que chacun est en droit d’attendre d’un haut responsable politique ». Qui s’exprime ainsi ? M. Jean-Paul Fournier, sénateur-maire U.M.P. de Nîmes, irrité par la fermeture de la base aéronavale de NÎmes – Garons, cité par Le Figaro (et non Libé, Politis ou Minute) du 9 février 2009. Le sénateur Fournier a très bien cerné votre comportement intolérable et honteux.

 

 

 

Aymeric Chauprade interdit de tout contact avec le corps des officiers d’active, vous agissez sciemment contre l’armée française, contre la France. En le renvoyant, vous risquez même de devenir la risée de l’Hexagone. En effet, le 12 juillet 2001, Aymeric Chauprade publiait dans Le Figaro un remarquable plaidoyer en faveur d’un « bouclier antimissile français ». Et que lit-on dans Le Figaro du 13 février 2009 ? « La France se lance dans la défense antimissile »… Certes, nul n’est prophète en son pays, mais quand même, ne peut-il pas y avoir parfois une exception ?

 

 

 

Votre action injuste me rappelle d’autres précédents quand l’Institution militaire sanctionnait des officiers coupables de penser par eux-mêmes et de contester ainsi le conformisme de leur temps : le général Étienne Copel, le colonel Philippe Pétain, le lieutenant-colonel Émile Mayer, le commandant Charles de Gaulle.

 

 

Anticonformiste, Aymeric Chauprade l’est avec talent et intelligence; il s’inscrit dans la suite prestigieuse des Jomini, Castex et Poirier. Voilà pourquoi le réintégrer au C.I.D. serait un geste fort pour l’indispensable réarmement moral d’une armée qui en a grand besoin.

 

 

 

Je doute fort, Monsieur le ministre de la Défense euro-atlantiste, que ma missive vous fera changer d’avis. Qu’importe ! Libre à vous de rester insignifiant et de figurer dans les chroniques comme le Galliffet de la réflexion stratégique.

 

Recevez, Monsieur le Ministre, mes salutations normandes.

 

 

 

Georges Feltin-Tracol

mardi, 22 septembre 2009

La nouvellestratégie de diversion d'Ankara dans le Caucase

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Bernhard TOMASCHITZ:

 

La nouvelle stratégie de diversion d’Ankara dans le Caucase

 

Le dégel entre la Turquie et l’Arménie profite à l’Azerbaïdjan et aux Etats-Unis

 

Si les relations turco-arméniennes se normalisent, l’Arménie pourrait abandonner le lien étroit qui la lie à la Russie et devenir un vassal de plus des Etats-Unis dans le Caucase du Sud

 

La Turquie et l’Arménie sont récemment convenues d’entamer des négociations en vue d’établir des relations diplomatiques. Dans les deux mois à venir, les négociateurs prévoient d’ouvrir les frontières entre les deux pays voisins. Le rapprochement entre Ankara et Erivan a eu lieu suite à une médiation suisse. Reste à savoir si les rapports entre Turcs et Arméniens se normaliseront et si l’affrontement entre les deux nations, qui dure depuis près de cent ans, s’aplanira. L’avenir devra le prouver.

 

Lors des négociations prochaines, on soulèvera immanquablement la question du génocide perpétré par l’Empire ottoman à la fin de la première guerre mondiale contre les Arméniens chrétiens, massacres qui ont fait près d’un million et demi de morts. Cette question ne jouera cependant qu’un rôle subalterne dans les négociations. Elle sera traitée par une commission composée d’historiens issus des deux pays. Le principal point à l’ordre du jour sera la question du Haut Karabakh. Depuis 1993, les Arméniens occupent en effet cette région montagneuse, ainsi que sept provinces azerbaïdjanaises limitrophes.  Le Haut Karabakh est peuplé d’Arméniens ethniques mais appartient à l’Azerbaïdjan  selon le droit international. A cette époque, les Turcs et les Azéris avaient fermé leurs frontières avec l’Arménie,  ce qui avait entraîné des conséquences désastreuses pour l’économie arménienne. Les liens sont étroits entre la Turquie et l’Azerbaïdjan, car les Azéris sont un peuple turc (turcophone) et musulman; sur les plans ethnique et linguistique, les Azéris sont donc proches parents des Turcs. C’est pourquoi la Turquie exige de l’Arménie qu’elle retire ses troupes présentes sur le sol de l’Azerbaïdjan.

 

Ankara tente de tuer deux mouches d’un seul coup de savate en entamant des négociations avec Erivan pour renouer des relations diplomatiques; d’une part, les Turcs entendent recevoir quelques “bonnes notes” de Bruxelles avant de réentamer des pourparlers en vue d’une adhésion à l’UE; Ankara bénéficierait alors de préjugés plus favorables à son adhésion dans le prochain rapport que la Commission rédige, à intervalles réguliers, sur ses “progrès”, car, quoi qu’il en soit, la petite puissance d’Asie Mineure a, ces temps-ci, accumulé bon nombre de “mauvaises notes”. La calcul des Turcs s’avère néanmoins porteur: “Ces accords contribueront à la paix et à la stabilité dans le Caucase méridional”, ont déclaré la Commissaire des Affaires étrangères de l’UE, Benita Ferrero-Waldner et le Commissaire à l’élargissement, Olli Rehn. D’autre part, Ankara  cherche à mettre un terme à l’occupation arménienne de portions importantes du territoire azéri. “La Turquie continuera à soutenir l’Azerbaïdjan dans la question du Haut Karabakh” vient d’affirmer David Chaanatsarine du “Congrès National Arménien”, un parti d’opposition, suite aux questions que lui posaient des journalistes du quotidien turc “Hürrriyet”. Cette affirmation de Chaanatsarine correspond parfaitement avec celles de voix officielles turques. “La Turquie n’entreprendra jamais rien qui puisse nuire à ses frères d’Azerbaïdjan”, avait dit le ministre turc des affaires étrangères Ahmet Davutoglu aux questions posées par la chaîne de télévision NTV. Finalement, avait-il ajouté, “rien n’est plus important que l’amitié turco-azérie”.

 

L’objectif officiel d’Ankara, comme l’a annoncé le ministre des affaires étrangères Davutoglu, est de procurer à la Turquie “un environnement stable le long de ses frontières”. Mieux: en négociant afin de mettre un terme à l’occupation arménienne du Haut Karabakh et des provinces limitrophes, Ankara cherche à renforcer l’Azerbaïdjan et, ainsi, à se profiler comme une puissance régionale efficace au Moyen Orient. En effet, si l’Arménie est neutralisée, il naîtra de facto un “bloc turc(ophone)” plus riche et plus solide du Bosphore à la Caspienne, région où  se trouvent d’énormes gisements de pétrole et de gaz. De cette façon, Ankara pourra mettre encore plus de pression sur l’UE et se positionner comme un espace de transit sûr et incontournable pour les énergies fossiles. Ankara veut acquérir une position telle que son adhésion finira par être complètement acceptable. En 2003, on a rendu opérationnel l’oléoduc BTC (Bakou-Tiflis-Ceyhan), qui part d’Azerbaïdjan, traverse la Géorgie et aboutit en Turquie. De même, cette année-là, on a inauguré le gazoduc BTE (Bakou-Tiflis-Erzouroum). Ce gazoduc et cet oléoduc ont été réalisés avec une participation financière très importante des Etats-Unis, dans le but d’éviter les territoires de la Russie et de l’Iran.

 

Les Américains se félicitent bien entendu des négociations entre Ankara et Erivan. Si les rapports entre la Turquie et l’Arménie se normalisent, alors Moscou perdra son seul allié dans le Caucase du Sud. L’Arménie entretient certes de bons rapports avec les Etats-Unis et a même envoyé des soldats en Afghanistan mais la Russie reste, pour les Arméniens, la puissance protectrice. Ce n’est qu’avec l’appui de Moscou que l’Arménie, petit pays d’à peine 3,5 millions d’habitants, a pu infliger à son voisin azéri, qui compte, lui, 8 millions d’habitants, une défaite militaire retentissante. L’influence économique de la Russie est également importante: ce sont en effet des entreprises d’Etat russes qui possèdent les plus grandes usines hydrauliques arméniennes et la centrale nucléaire de Metsamor; cette dernière est le principal fournisseur d’énergie du pays (40% de l’énergie consommée). Si les relations se normalisent avec la Turquie, membre de l’OTAN, les rapports entre Erivan et Moscou pourraient bien se rafraîchir. Car les Etats-Unis se montrent particulièrement généreux quand il s’agit de limiter et de refouler l’influence russe dans le Caucase: souvenons-nous que la Géorgie reçoit chaque année un milliard de dollars. Mais le prix que l’Arménie aurait à payer pour son “alignement” serait vraiment fort élevé: surtout l’abandon du Haut Karabakh. Dans la “République Démocratique du Haut Karabakh”, non reconnue par les instances internationales, la méfiance croît envers Erivan. Kegham Bagdadcharian, membre du Parlement de cette république, évoque une “déviance dangereuse” en Arménie, car celle-ci  a accepté les “conditions préalables”, exigées par les Turcs, pour entretenir des relations diplomatiques.

 

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°37/2009; trad. franç.: Robert Steuckers).

vendredi, 18 septembre 2009

Gespräch mit Dr. Tomislav Sunic

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Archiv von "SYNERGIES EUROPEENNES" - 1998

Gespräch mit Dr. Tomislav Sunic

Tomislav Sunic, 1953 in Zagreb/Agram geboren, ist Autor von drei wichtigen Büchern Against Democracy and Equality. The European New Right, Dissidence and Titoism  (beide bei Peter Lang, Bern/Frankfurt a. M.) und Americka Ideologija  (= Die amerikanische Ideologie). Wegen politischer Dissidenz muß­te er 1983 in die Vereinigten Staaten emigrieren, wo er in der Ca­lifor­nia State Uni­versity von Sacramento und in der University of Ca­lifornia in Santa Barbara studierte und promo­vierte. Er hat in den VSA für verschiedenen Zeitschriften ges­chrieben und hat in der California State University in Long Beach und in den Ju­nia­ta College in Pennsylvanien doziert. Seit 1993 ist er zurück in Eu­ropa. Heute schreibt er für Chronicles of American Culture und für Eléments  (Frankreich).

 

Dr. Sunic, in welchem Familienkontext sind Sie aufgewachsen? Welche ideologische Einflüße hat ihr Vater auf Ihnen gehabt?

 

Mein Vater war Anwalt, hat politische Dissidenten verteidigt, wurde zweimal wegen politischer Nonkonformität im kommu­nistischen Jugoslawien eingesperrt. Er war antikommunistisch und stark vom kroatischen Bauernkatholizismus geprägt. Amnisty International hat ihn als Mustergefangenen adoptiert, weil er 1985 der älteste politische Gefangene im kommunisti­schen Osteuropa war. Die FAZ  und Die Welt  haben sich auch für ihn engagiert. Wir lebten in sehr bescheidene Umstände, wir hatten weder Fernsehen noch Pkw. Mein Vater war der Mei­nung, nur Bü­cher machen eine richtige Bildung. Wir wur­den ständig schika­niert und mein Vater verlor bald das Recht, seinen Beruf auszu­üben. Er war während des Krieges nicht Mitglied der Ustascha, stand eher kritisch dem kroatischen Staats­wesen von Pavelic gegenüber. Mein Vater war Domobran, d. h. in der Einwohner­wehr. Heute ist er 83 und hat 1996 seine Memoiren unter den Titel “Moji "inkriminari” zapisi” (= Meine “inkrimi­nier­ten” Pa­piere) publiziert, wobei er im neuen kroati­schen Staat viel Aufmerksamkeit geregt hat.

 

Aber wie würden Sie ihre eigenen philosophisch-ideologischen Weg beschreiben?

 

Um es kurz zu fassen, bin ich ein “reaktionärer Linke” oder ein “konservativer Sozialist”. Ich gehöre keiner Sekte oder keiner theologish-ideologischer Partei. Ich war antikommunistisch wie mein Vater, aber, als ich jung war, nahm meine persön­liche Revolte den Gewand des Hippismus. Ich pilgerte nach Amster­dam, danach nach Indien im kaschmirischen Srinagar und in der Stadt Goa. Der Ersatz zum Kommunismus war für mich die hippy Gemeinschaft. Ich war gegen alle Formen von Establish­ment, egal welche ideologische Gestalt es hat. Aber ich verstand sehr bald, daß der Hippismus auch eine traurige Farce war. Um es salopp auszudrucken: “Eben beim Joints-Rauchen, haben die Hippies eine Art Hierarchie mit aller möglichen Heu­chelei re­produziert”. Das gilt auch selbstverständlich für den Fe­minis­mus und den Schwulenbewegungen. Mein einziger Trost war das Lesen der großen Klassiker der Weltliteratur. Die sind die richtigen Antidoten zum Konformismus. Als Kind las ich Tintin (dt. “Tim”) auf französisch, Karl May auf deutsch sowie den Dichter Nikolas Lenau. Als Jugendlicher las ich weiter deutsche, französische und englische Bü­cher. Mit dieser klassi­schen Bildung und meiner Hippy-Erfahrung, habe ich dann die Rock-Musik entdeckt, u. a. “Kraft­werk” und Frank Zappa, der zur gleichen Zeit Anarchist, Porno­graph und Nonkonformer war. Zappa war für mich sehr wich­tig, da er mich die Realsprache gegen alle Heucheleien der eta­blier­ten Gesellschaft gelernt hat. Mit ihm habe ich das ame­rikanische Slang bemeis­tern können, die ich oft benutzt in meinem Schreiben, um das links-liberale Establishment diesmal konser­vativ aber im­mer ironisch und höhnisch zu bes­potten.

 

Können Sie uns ein Paar Worte über ihre Studien sagen?

 

In Kroatien zur Zeit der kommunistischen Herrschaft habe ich Literatur, moderne Sprachen und Vergleichende Literatur stu­diert. Ich war 1977 fertig. Ästhetisch und graphisch konnte ich den Jugo-Kommunismus nicht mehr ertragen, Betonsprache und balkanische Vetternwirtschaft machten mich kotzen. 1980 nutzte ich die Gelegenheit, für ein jugoslawisches Unternehmen in Algerien als Dolmetscher zu arbeiten. 1983 emigrierte ich in den Vereinigten Staaten. Dort las ich wiedermal die nonkon­forme Li­teratur. Damals waren meine Lieblingsautoren  Ke­rouac und der Fran­zose Barbusse; weiter habe ich Sartre gele­sen, weil er nicht nur Linker sondern ein bissiger Entlarver war, oh­ne Her­mann Hesse zu vergessen, weil er mich an meine Indien-Reise erinnerte.

 

In den Vereinigten Staaten haben Sie den amerikanischen Neo­kon­servatismus entdeckt?

 

Zuerst muß ich sagen, daß der amerikanische Neokonservatis­mus nicht mit dem europäischen gleichgestellt sein kann. Links, rechts, was heißt das heute? Ich teile die Leute in Konformisten und Nonkonformisten. Der Mann, der mich in diesen Kreisen beeindruckt hat, war Thomas Molnar. Er war damals mein Mentor, weil er Un­garn und Angehöriger des ehemaligen k.u.k-Kulturraumes ist. Molnar ist ganz und klar Konservativer aber er bleibt ein Mann mit Ironie und sehr viel Humor. So trifft er immer das Wesentliche. Der Schmitt- und Hegel-Spezialist Paul Gottfried übte auch auf mich einen tiefen Einfluß. Danach habe ich Paul Fleming kennengelernt, der die Zeitschrift Chronicles of Ame­rican Culture  leitet. Ich bin Autor der Redaktion seit mehr als zehn Jahre. Aber Rebell bin ich ge­blieben, deshalb interessierte ich mich intensiv für die sogenannten europäi­schen Neue Rech­te bzw. den Neo­konservatismus Europas mit Mohler und seinem heroischen Realismus, Schrenck-Notzing und seiner Feind­schaft jeder öffentlichen Meinungsdiktatur gegenüber, Kalten­brun­ner und seiner Faszination für die Schönheit in unse­rer geistigen Trümmernwelt,  Benoist mit seine Syn­these in Von rechts ge­sehen.  Ich habe dann die Autoren gelesen, die die Neue Rechte empfahl. Mein Buch über die Neue Rechte ist eigentlich ein fol­low-up meines Eintauchens in diese Bil­dungswelt. Aber die Benennung “Neue Rechte” kann auch trügen: ich ziehe es vor, diese neue Kulturbewegung als “GRECE” zu bezeichnen, d.h. wie Benoist es sieht, als ein dynamische Forschungstelle zur Erhal­tung der Lebendigkeit unserer gesamteuropäischen Kultur. Cé­line (mit seiner groben Pariser Rotwelschsprache die alle einge­bür­gerten Gewißheiten zertrümmert), Benn und Cioran mit ihrem unnachahmbaren Stil bleiben aber die Lieblingsautoren des Rebells, der ich bin und blei­ben werde.

 

Sie sind in Kroatien und in Europa 1993 zurückgekommen. Wie haben Sie die neue Lage in Ostmitteleuropa beurteilt?

 

Das Schicksal Kroatiens ist eng mit dem Schicksal Deutschlands verbunden, egal welches politische System in Deutschland herr­scht. Sowie der schwedische Gründer der Geopolitik, Rudolf Kjellén, sagte: “man kann seine geopolitischen Bestimmung nicht entweichen”. Andererseits, hat uns Erich Voegelin gelernt, daß man politische Religionen wie Faschismus und Kommu­nis­mus wegwerfen kann, aber daß man das Schicksal seines Hei­matlandes nicht entrinnen kann. Das deutsche Schicksal, ein­gre­kreist zu sein, ist dem kroatischen Schicksal ähnlich, eben wenn Kroatien nur ein kleiner Staat Zwischeneuropas ist.  Ein gemeinsames geographisches Fakt ve­reint uns Deutsche und Kroaten: die Adria. Das Reich und die Doppelmonarchie waren stabile Staatswesen solange sie eine Öffnung zum Mittelmeer durch die Adria hatten. Die westlichen Mächte haben es immer versucht, die Mächte Mitteleuropas den Weg zur Adria zu ver­s­perren: Napoleon riegelte den Zugang Österreiches zur Adria, indem er die Küste direkt an Frankreich annektierte (die sog. “départements illyriens”), später sind die Architekte von Versail­les in dieser Politik meisterhaft  gelungen. Deutschland verlor den Zugang zum Mittelmeer und Kroatien verlor sein mittel­eu­ropäisches Hinterland sowie seine Souveränität. Das ist der Schlüssel des kroatischen Dramas im 20. Jahrhundert.

 

Wird Kroatien den Knoten durchhaken können? Seine Position zwischen Mitteleuropa und Mittelmeer optimal benutzen kön­nen?

 

Unsere Mittelschichten und unsere Intelligentsija wurden total durch die Titoistischen Repression nach 1945 liquidiert: Das ist soziobiologisch gesehen die schlimmste Katastrophe für das kroatisches Volk. Der optimale und normale Elitekreislauf ist seitdem nicht mehr möglich. Der “homo sovieticus” und der “homo balkanicus” do­minieren, zu Ungunsten des “homini mit­teleuropei”.

 

Wie sehen Sie die Beziehungen zwischen Kroatien und seinen balkanischen Nachbarn?

 

Jede aufgezwungene Heirat scheitert. Zweimal in diesem Jahrhun­dert ist die Heirat zwischen Kroatien und Jugoslawien geschei­tert. Es wäre besser, mit den Serben, Bosniaken, Albanern und Makedoniern als gute Nachbarn statt als schlechte und zän­ki­sche Eheleute zu leben. Jedes Volk in ehemaligen und in Rest­ju­goslawien sollte seinen eigenen Staat haben. Das jugosla­wische Ex­periment ist ein Schulbeispiel für das Scheitern jeder aufgez­wun­gen Multikultur.

 

Was wird nach Tudjman?

Hauptvorteil von Tudjman ist es, daß er völlig die Geschichts­schreibung des Jugokommunismus entlarvt hat. Größtenteils hat er das kroatische Volk und besonders die Jugend von der Ver­fälschung der Geschichte genesen.

Herr Dr. Sunic, wir danken Ihnen für dieses Gespräch.

(Robert STEUCKERS, Brüssel, den 13. Dezember 1997).

jeudi, 17 septembre 2009

Acuerdo bilateral Kosovo-EEUU sobre ayuda economica

Acuerdo bilateral Kosovo-EEUU sobre ayuda económica

Kosovo y Estados Unidos firmaron este lunes su primer acuerdo bilateral de ayuda económica, centrado en las infraestructuras, aunque el monto no fue precisado, anunciaron fuentes oficiales en Pristina.

“La ayuda se destinará al desarrollo (de Kosovo) y en particular a las diferentes infraestructuras, y en consecuencia a la economía, los transportes y la educación”, declaró el presidente kosovar, Fatmir Sejdiu.

El canciller kosovar indicó en un comunicado que otro acuerdo de 13 millones de dólares fue firmado con Estados Unidos para reforzar el Estado de derecho en Kosovo.

El ministro de Relaciones Exteriores, Skender Hyseni, indicó que la ayuda sería empleada en crear “una estructura legal estable” en Kosovo.


Estados Unidos fue uno de los primeros países en reconocer la independencia de Kosovo, proclamada de manera unilateral en febrero de 2008.

Belgrado no reconoce la independencia y considera que Kosovo es una provincia serbia.

Extraído de Univisión.

~ por LaBanderaNegra en Septiembre 14, 2009.

A. Chauprade: la Russie, obstacle majeur sur la route de l'Amérique-Monde

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Aymeric Chauprade : La Russie, obstacle majeur sur la route de « l’Amérique-monde» 

[1]Alors que les Etats-Unis tentent, depuis le 11 septembre 2001, d’accélérer leur projet de transformation du monde à l’image de la société démocratique et libérale rêvée par leurs pères fondateurs, les civilisations non occidentales se dressent sur leur chemin et affirment leur volonté de puissance.

La Russie, en particulier constitue un obstacle géopolitique majeur pour Washington. Elle entend défendre son espace d’influence et montrer au monde qu’elle est incontournable sur le plan énergétique.

L’un des auteurs classiques de la géopolitique, Halford J. Mackinder (1861-1947), un amiral britannique, qui professa la géographie à Oxford, défendait comme thèse centrale que les grandes dynamiques géopolitiques de la planète s’articulaient autour d’un cœur du monde (heartland), l’Eurasie. Pivot de la politique mondiale que la puissance maritime ne parvenait pas à atteindre, l’Eurasie avait pour cœur intime la Russie, un Empire qui « occupait dans l’ensemble du monde la position stratégique centrale qu’occupe l’Allemagne en Europe ».

Autour de cet épicentre des secousses géopolitiques mondiales, protégé par une ceinture faite d’obstacles naturels (vide sibérien, Himalaya, désert de Gobi, Tibet) que Mackinder appelle le croissant intérieur, s’étendent les rivages du continent eurasiatique : Europe de l’Ouest, Moyen-Orient, Asie du Sud et de l’Est.

Au-delà de ces rivages, par-delà les obstacles marins, deux systèmes insulaires viennent compléter l’encadrement du heartland : la Grande-Bretagne et le Japon, têtes de pont d’un croissant plus éloigné auquel les États-Unis appartiennent.

Selon cette vision du monde, les puissances maritimes mondiales, les thalassocraties que défend Mackinder, doivent empêcher l’unité continentale eurasiatique.

Elles doivent donc maintenir les divisions est/ouest entre les principales puissances continentales capables de nouer des alliances (France/Allemagne, Allemagne/Russie, Russie/Chine) mais aussi contrôler les rivages du continent eurasiatique.

Cette matrice anglo-saxonne, que l’on peut appliquer au cas de l’Empire britannique au XIXe siècle, comme à celui de la thalassocratie américaine au XXe siècle, reste un outil pertinent pour comprendre la géopolitique d’aujourd’hui.

La théorie de Mackinder nous rappelle deux choses que les thalassocraties anglo-saxonnes n’ont jamais oubliées : il n’y a pas de projet européen de puissance (d’Europe puissance) sans une Allemagne forte et indépendante (or l’Allemagne reste largement sous l’emprise américaine depuis 1945) ; il n’y pas d’équilibre mondial face au mondialisme américain sans une Russie forte.

L’Amérique veut l’Amérique-monde ; le but de sa politique étrangère, bien au-delà de la seule optimisation de ses intérêts stratégiques et économiques du pays, c’est la transformation du monde à l’image de la société américaine. L’Amérique est

messianique et là est le moteur intime de sa projection de puissance. En 1941, en signant la Charte de l’Atlantique, Roosevelt et Churchill donnaient une feuille de route au rêve d’un gouvernement mondial visant à organiser une mondialisation libérale et démocratique. Jusqu’en 1947, l’Amérique aspira à la convergence avec l’URSS dans l’idée de former avec celle-ci un gouvernement mondial, et ce, malgré l’irréductibilité évidente des deux mondialismes américain et soviétique. Deux ans après l’effondrement européen de 1945, les Américains comprirent qu’ils ne parviendraient pas à entraîner les Soviétiques dans leur mondialisme libéral et ils se résignèrent à rétrécir géographiquement leur projet : l’atlantisme remplaça provisoirement le mondialisme.

Puis, en 1989, lorsque l’URSS vacilla, le rêve mondialiste redressa la tête et poussa l’Amérique à accélérer son déploiement mondial. Un nouvel ennemi global, sur le cadavre du communisme, fournissait un nouveau prétexte à la projection globale : le terrorisme islamiste. Durant la Guerre froide, les Américains avaient fait croître cet ennemi, pour qu’il barre la route à des révolutions socialistes qui se seraient tournées vers la Russie soviétique. L’islamisme sunnite avait été l’allié des Américains contre la Russie soviétique en Afghanistan. Ce fut le premier creuset de formation de combattants islamistes sunnites, la matrice d’Al Qaida comme celle des islamistes algériens… Puis il y eut la révolution fondamentaliste chiite et l’abandon par les Américains du Shah d’Iran en 1979. Le calcul de Washington fut que l’Iran fondamentaliste chiite ne s’allierait pas à l’URSS, contrairement à une révolution marxiste, et qu’il offrirait un contrepoids aux fondamentalistes sunnites.

Dans le monde arabe, ce furent les Frères musulmans qui, d’Egypte à la Syrie, furent encouragés. Washington poussa l’Irak contre l’Iran, et inversement, suivant le principe du « let them kill themselves (laissez-les s’entretuer) » déjà appliqué aux

peuples russe et allemand, afin de détruire un nationalisme arabe en contradiction avec les intérêts d’Israël. L’alliance perdura après la chute de l’URSS. Elle fut à l’œuvre dans la démolition de l’édifice yougoslave et la création de deux Etats musulmans en Europe, la Bosnie-Herzégovine puis le Kosovo.

L’islamisme a toujours été utile aux Américains, tant dans sa situation d’allié face au communisme durant la Guerre froide, que dans sa nouvelle fonction d’ennemi officiel depuis la fin de la bipolarité. Certes, les islamistes existent réellement ;

ils ne sont pas une création imaginaire de l’Amérique ; ils ont une capacité de nuisance et de déstabilisation indéniable. Mais s’ils peuvent prendre des vies, ils ne changeront pas la donne de la puissance dans le monde.

La guerre contre l’islamisme n’est que le paravent officiel d’une guerre beaucoup plus sérieuse : la guerre de l’Amérique contre les puissances eurasiatiques.

Après la disparition de l’URSS, il est apparu clairement aux Américains qu’une puissance continentale, par la combinaison de sa masse démographique et de son potentiel industriel, pouvait briser le projet d’Amérique-monde : la Chine. La formidable ascension industrielle et commerciale de la Chine face à l’Amérique fait penser à la situation de l’Allemagne qui, à la veille de la Première Guerre mondiale, rattrapait et dépassait les thalassocraties anglo-saxonnes. Ce fut la cause première de la Première Guerre mondiale.

Si la Chine se hisse au tout premier rang des puissances pensent les stratèges américains, par la combinaison de sa croissance économique et de son indépendance géopolitique, et tout en conservant son modèle confucéen à l’abri du démocratisme occidental, alors c’en est fini de l’Amérique-monde. Les Américains peuvent renoncer à leur principe de Destinée manifeste (Principle of Manifest Destiny) de 1845 ainsi qu’au messianisme de leurs pères fondateurs, fondamentalistes biblistes ou franc-maçons.

Alors que l’URSS venait à peine de s’effondrer, les stratèges américains orientèrent donc leurs réflexions sur la manière de contenir l’ascension de la Chine.

Sans doute comprirent-ils alors toute l’actualité du raisonnement de Mackinder. Les Anglo-Saxons avaient détruit le projet eurasiatique des Allemands, puis celui des Russes ; il leur fallait abattre celui des Chinois. Une nouvelle fois la Mer voulait faire pièce à la Terre.

La guerre humanitaire et la guerre contre le terrorisme seraient les nouveaux prétextes servant à masquer les buts réels de la nouvelle grande guerre eurasiatique : la Chine comme cible, la Russie comme condition pour emporter la bataille.

La Chine comme cible parce que seule la Chine est une puissance capable de dépasser l’Amérique dans le rang de la puissance matérielle à un horizon de vingt ans. La Russie comme condition parce que de son orientation stratégique découlera largement l’organisation du monde de demain : unipolaire ou multipolaire.

Face à la Chine, les Américains entreprirent de déployer une nouvelle stratégie globale articulée sur plusieurs volets :

* L’extension d’un bloc transatlantique élargi jusqu’aux frontières de la Russie et à l’ouest de la Chine.

* Le contrôle de la dépendance énergétique de la Chine.

* L’encerclement de la Chine par la recherche ou le renforcement d’alliances avec des adversaires séculaires de l’Empire du Milieu (les Indiens, les Vietnamiens,les Coréens, les Japonais, les Taïwanais…).

* L’affaiblissement de l’équilibre entre les grandes puissances nucléaires par le développement du bouclier anti-missiles.

* L’instrumentalisation des séparatismes (en Serbie, en Russie, en Chine, et jusqu’aux confins de l’Indonésie) et le remaniement de la carte des frontières (au Moyen-Orient arabe).

Washington a cru, dès 1990, pouvoir faire basculer la Russie de son côté, pour former un vaste bloc transatlantique de Washington à Moscou avec au milieu la périphérie européenne atlantisée depuis l’effondrement européen de 1945. Ce fut

la phrase de George Bush père, lequel en 1989 appelait à la formation d’une alliance « de Vladivostok à Vancouver » ; en somme le monde blanc organisé sous la tutelle de l’Amérique, une nation paradoxalement appelée, par le contenu même de son idéologie, à ne plus être majoritairement blanche à l’horizon 2050.

L’extension du bloc transatlantique est la première dimension du grand jeu eurasiatique. Les Américains ont non seulement conservé l’OTAN après la disparition du Pacte de Varsovie mais ils lui ont redonné de la vigueur : premièrement l’OTAN est passé du droit international classique (intervention uniquement en cas d’agression d’un Etat membre de l’Alliance) au droit d’ingérence. La guerre contre la Serbie, en 1999, a marqué cette transition et ce découplage entre l’OTAN et le droit international. Deuxièmement, l’OTAN a intégré les pays d’Europe centrale et d’Europe orientale. Les espaces baltique et yougoslave (Croatie, Bosnie, Kosovo) ont été intégrés à la sphère d’influence de l’OTAN. Pour étendre encore l’OTAN et resserrer l’étau autour de la Russie, les Américains ont fomenté les révolutions colorées (Géorgie en 2003, Ukraine en 2004, Kirghizstan en 2005), ces retournements politiques non violents, financés et soutenus par des fondations et des ONG américaines, lesquelles visaient à installer des gouvernements anti-russes. Une fois au pouvoir, le président ukrainien pro-occidental demanda naturellement le départ de la flotte russe des ports de Crimée et l’entrée de son pays dans l’OTAN.

Quant au président géorgien il devait, dès 2003, militer pour l’adhésion de son pays dans l’OTAN et l’éviction des forces de paix russes dédiées depuis 1992 à la protection des populations abkhazes et sud-ossètes.

À la veille du 11 septembre 2001, grâce à l’OTAN, l’Amérique avait déjà étendu fortement son emprise sur l’Europe. Elle avait renforcé l’islam bosniaque et albanais et fait reculer la Russie de l’espace yougoslave.

Durant les dix premières années post-Guerre froide, la Russie n’avait donc cessé de subir les avancées américaines. Des oligarques souvent étrangers à l’intérêt national russe s’étaient partagés ses richesses pétrolières et des conseillers libéraux proaméricains entouraient le président Eltsine. La Russie était empêtrée dans le conflit tchétchène, remué largement par les Américains comme d’ailleurs l’ensemble des abcès islamistes. Le monde semblait s’enfoncer lentement mais sûrement dans l’ordre mondial américain, dans l’unipolarité.

En 2000, un événement considérable, peut-être le plus important depuis la fin de la Guerre froide (plus important encore que le 11 septembre 2001) se produisit pourtant : l’accession au pouvoir de Vladimir Poutine. L’un de ces retournements de l’histoire qui ont pour conséquences de ramener celle-ci à ses fondamentaux, à ses constantes.

Poutine avait un programme très clair : redresser la Russie à partir du levier énergétique. Il fallait reprendre le contrôle des richesses du sous-sol des mains d’oligarques peu soucieux de l’intérêt de l’Empire. Il fallait construire de puissants opérateurs pétrolier (Rosneft) et gazier (Gazprom) russes liés à l’Etat et à sa vision stratégique. Mais Poutine ne dévoilait pas encore ses intentions quant au bras de fer américano-chinois. Il laissait planer le doute. Certains, dont je fais d’ailleurs partie puisque j’analysais à l’époque la convergence russo-américaine comme passagère et opportune (le discours américain de la guerre contre le terrorisme interdisait en effet momentanément la critique américaine à propos de l’action russe en Tchétchénie), avaient compris dès le début que Poutine reconstruirait la politique indépendante de la Russie ; d’autres pensaient au contraire qu’il serait occidentaliste. Il lui fallait en finir avec la Tchétchénie et reprendre le pétrole. La tâche était lourde. Un symptôme évident pourtant montrait que Poutine allait reprendre les fondamentaux de la grande politique russe : le changement favorable à l’Iran et la reprise des ventes d’armes à destination de ce pays ainsi que la relance de la coopération en matière de nucléaire civil.

Pourquoi alors l’accession de Poutine était-elle un événement si considérable ?

Sans apparaître à l’époque de manière éclatante, cette arrivée signifiait que l’unipolarité américaine, sans la poursuite de l’intégration de la Russie à l’espace transatlantique, était désormais vouée à l’échec, et avec elle, par conséquent, la grande stratégie visant à briser la Chine et à prévenir l’émergence d’un monde multipolaire.

Au-delà encore, nombre d’Européens ne perçurent pas immédiatement que Poutine portait l’espoir d’une réponse aux défis de la compétition économique mondiale fondée sur l’identité et la civilisation. Sans doute les Américains, eux, le comprirent-ils mieux que les Européens de l’Ouest. George Bush n’en fit-il pas l’aveu lorsqu’il avoua un jour qu’il avait vu en Poutine un homme habité profondément par l’intérêt de son pays ?

Le 11 septembre 2001 offrit pourtant l’occasion aux Américains d’accélérer leur programme d’unipolarité. Au nom de la lutte contre un mal qu’ils avaient eux-mêmes fabriqués, ils purent obtenir une solidarité sans failles des Européens (donc plus d’atlantisme et moins « d’Europe puissance »), un rapprochement conjoncturel avec Moscou (pour écraser le séparatisme tchétchéno-islamiste), un recul de la Chine d’Asie centrale face à l’entente russo-américaine dans les républiques musulmanes ex-soviétiques, un pied en Afghanistan, à l’ouest de la Chine donc et au sud de la Russie, et un retour marqué en Asie du Sud-est.

Mais l’euphorie américaine en Asie centrale ne dura que quatre ans. La peur d’une révolution colorée en Ouzbékistan poussa le pouvoir ouzbek, un moment tenté de devenir la grande puissance d’Asie centrale en faisant contrepoids au grand frère russe, à évincer les Américains et à se rapprocher de Moscou. Washington perdit alors, à partir de 2005, de nombreuses positions en Asie centrale, tandis qu’en Afghanistan, malgré les contingents de supplétifs qu’elle ponctionne à des Etats européens incapables de prendre le destin de leur civilisation en main, elle continue de perdre du terrain face à l’alliance talibano-pakistanaise, soutenue discrètement en sous-main par les Chinois qui veulent voir l’Amérique refoulée d’Asie centrale.

Les Chinois, de nouveau, peuvent espérer prendre des parts du pétrole kazakh et du gaz turkmène et construire ainsi des routes d’acheminement vers leur Turkestan (le Xinjiang). Pékin tourne ses espoirs énergétiques vers la Russie qui équilibrera à l’avenir ses fournitures d’énergie vers l’Europe par l’Asie (non seulement la Chine mais aussi le Japon, la Corée du Sud, l’Inde…).

Le jeu de Poutine apparaît désormais au grand jour. Il pouvait s’accorder avec Washington pour combattre le terrorisme qui frappait aussi durement la Russie. Il n’avait pas pour autant l’intention d’abdiquer quant aux prétentions légitimes de la Russie : refuser l’absorption de l’Ukraine (car l’Ukraine pour la Russie c’est une nation sœur, l’ouverture sur l’Europe, l’accès à la Méditerranée par la mer Noire grâce au port de Sébastopol en Crimée) et de la Géorgie dans l’OTAN. Et si l’indépendance du Kosovo a pu être soutenue par les Américains et des pays de l’Union européenne, au nom de quoi les Russes n’auraient-ils pas le droit de soutenir celles de l’Ossétie du Sud et de l’Abkhazie, d’autant que les peuples concernés eux-mêmes voulaient se séparer de la Géorgie ?

Mackinder avait donc raison. Dans le grand jeu eurasiatique, la Russie reste la pièce clé. C’est la politique de Poutine, bien plus que la Chine (pourtant cible première de Washington car possible première puissance mondiale) qui a barré la route à Washington. C’est cette politique qui lève l’axe énergétique Moscou (et Asie centrale)-Téhéran-Caracas, lequel pèse à lui seul ¼ des réserves prouvées de pétrole et près de la moitié de celles de gaz (la source d’énergie montante). Cet axe est le contrepoids au pétrole et au gaz arabes conquis par l’Amérique. Washington voulait étouffer la Chine en contrôlant l’énergie. Mais si l’Amérique est en Arabie Saoudite et en Irak (1ère et 3e réserves prouvées de pétrole), elle ne contrôle ni la Russie, ni l’Iran, ni le Venezuela, ni le Kazakhstan et ces pays bien au contraire se rapprochent. Ensemble, ils sont décidés à briser la suprématie du pétrodollar, socle de la centralité du dollar dans le système économique mondial (lequel socle permet à l’Amérique de faire supporter aux Européens un déficit budgétaire colossal et de renflouer ses banques d’affaires ruinées).

Nul doute que Washington va tenter de briser cette politique russe en continuant à exercer des pressions sur la périphérie russe. Les Américains vont tenter de développer des routes terrestres de l’énergie (oléoducs et gazoducs) alternatives à la toile russe qui est en train de s’étendre sur tout le continent eurasiatique, irriguant l’Europe de l’Ouest comme l’Asie. Mais que peut faire Washington contre le cœur énergétique et stratégique de l’Eurasie ? La Russie est une puissance nucléaire.

Les Européens raisonnables et qui ne sont pas trop aveuglés par la désinformation des médias américains, savent qu’ils ont plus besoin de la Russie qu’elle n’a besoin d’eux. Toute l’Asie en croissance appelle le pétrole et le gaz russe et iranien.

Dans ces conditions et alors que la multipolarité se met en place, les Européens feraient bien de se réveiller. La crise économique profonde dans laquelle ils semblent devoir s’enfoncer durablement conduira-t-elle à ce réveil ? C’est la conséquence positive qu’il faudrait espérer des difficultés pénibles que les peuples d’Europe vont endurer dans les décennies à venir.

Aymeric CHAUPRADE

Source du texte : ACADÉMIE DE GÉOPOLITIQUE DE PARIS [2]


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[2] ACADÉMIE DE GÉOPOLITIQUE DE PARIS: http://www.strategicsinternational.com/

mardi, 15 septembre 2009

Al-Qaeda: una util herramienta de guerra para el Imperio

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Al-Qaeda: una útil herramienta de guerra para el Imperio

Ex: http://antimperialista.blogia.com/

(Extracto del artículo "Ex secretario de seguridad de Bush revela dato clave del uso imperial del terrorismo" publicado en IAR noticias)

En el libro "La prueba de nuestro tiempo: Estados Unidos asediado... y cómo podemos estar nuevamente seguros" Ridge (Ex secretario de seguridad de Bush ) cuenta que pese a los pedidos del ex secretario de Defensa, Rumsfeld, y del entonces secretario de Justicia John Ashcroft, él se opuso a elevar el nivel de alerta y, finalmente, no fue elevado, aunque le costó el cargo.

Semanas antes de las elecciones de 2004 habían sido difundidas dos grabacioness de Al-Qaeda: una con Osama Bin Laden y la otra con un hombre llamado "Azzam el estadounidense’’. La CIA -como lo hace siempre- reconoció la "autenticidad" de las amenazas. "El aumento de la alarma terrorista en EEUU poco antes de las presidenciales de 2004 pretendía  influir en los resultados y favorecer a George W. Bush", afirma Ridge en su libro.

"Bush y el candidato contrincante demócrata John Kerry -señala- estaban muy igualados en las encuestas y los funcionarios claves de Bush  afirmaban que el video de Bin Laden, incluso sin elevar el nivel de alarma, contribuiría a una victoria final de Bush por un resultado abrumante."

Pese a todo se tomaron grandes prevenciones de seguridad en edificios públicos y en lugares claves de Nueva York, lo que ayudó a recrear el "clima terrorista" que lo llevó a Bush a ganar las elecciones y ser reelecto en el cargo presidencial.   

En pleno despliegue del aparato de seguridad para prevenir el "ataque terrorista", Ridge renunció el 30 de noviembre del 2004.

Desde el punto de vista geopolítico y estratégico, el   "terrorismo" no es un objeto diabólico del fundamentalismo islámico, sino una herramienta de la Guerra de Cuarta Generación que la inteligencia estadounidense y europea vienen utilizando (en Asia y Europa) para mantener y consolidar  la alianza USA-UE en el campo de las operaciones, para derrotar a los talibanes en Afganistán, justificar acciones militares contra Irán, antes de que se convierta en potencia nuclear, y generar un posible 11-S para distraer la atención de la crisis recesiva mundial.

A nivel geoeconómico se registra otra lectura:  Si se detuviera la industria y el negocio armamentista centralizado alrededor del combate contra el "terrorismo" (hoy alimentado por un presupuesto bélico mundial de US$ 1,460 billones) terminaría de colapsar la economía norteamericana que hoy se encuentra en una crisis financiera-recesiva de características inéditas.

Esta es la mejor explicación de porqué Obama, hoy sentado en el sillón de la Casa Blanca, ya se convirtió en el "heredero forzoso" de la "guerra contraterrorista" de Bush a escala global.

La "guerra contraterrorista" no es una política coyuntural de Bush y los halcones neocon, sino una estrategia global del Estado imperial norteamericano diseñada y aplicada tras el 11-S en EEUU, que ya tiene una clara  línea de continuidad con el gobierno demócrata de Obama.

La "simbiosis" funcional e interactiva entre Bush y Al Qaeda tiñó 8 años claves de la política imperial de EEUU. A punto tal, que a los expertos les resulta imposible pensar al uno sin el otro. Durante 8 años de gestión, Bin Laden y Al Qaeda se convirtieron casi en una "herramienta de Estado" para Bush y los halcones neocon que convirtieron al "terrorismo" ( y a la "guerra contraterrorista") en su principal estrategia de supervivencia en el poder.

Hay suficientes pruebas históricas en la materia: El 11-S sirvió de justificación para las invasiones de Irak y Afganistán, el 11-M en España preparó la campaña de reelección de Bush y fue la principal excusa para que EEUU impusiera en la ONU la tesis de "democratización" de Irak legitimando la ocupación militar, el 7-J en Londres  y las sucesivas oleadas de "amenazas" y "alertas rojas" le sirvieron a Washington para instaurar el "terrorismo" como primera hipótesis de conflicto mundial,  e imponer a Europa  los "planes contraterroristas" hoy institucionalizados a escala global.

Decenas de informes y de especialistas -silenciados por la prensa oficial del sistema- han construido un cuerpo de pruebas irrefutables de que Bin Laden y Al Qaeda son instrumentos genuinos de la CIA estadounidense que los ha utilizado para justificar las invasiones a Irak y Afganistán y para instalar la "guerra contraterrorista" a escala global.

La "versión oficial" del 11-S fue cuestionada y denunciada como "falsa y manipulada" por un conjunto de ex funcionarios políticos y de inteligencia, así como de investigadores tanto de EEUU como de Europa, que constan en documentos y pruebas presentados a la justicia de EEUU que nunca los investigó aduciendo el carácter "conspirativo" de los mismos (Ver: Documentos e informes del 11-S. / Al Qaeda y el terrorismo "tercerizado" de la CIA / La CIA ocultó datos y protegió a los autores del 11-S / Ex ministro alemán confirma que la CIA estuvo implicada en los atentados del 11-S / Informe del Inspector General del FBI: Más evidencias de complicidad del gobierno con el 11-S / Atentados del 11-S: 100 personalidades impugnan la versión oficial )

El establishment del poder demócrata (que ejerce la alternancia presidencial con los republicanos en la Casa Blanca) jamás mencionó la existencia de estas investigaciones y denuncias en una complicidad tácita de ocultamiento con el gobierno de Bush.

Simultáneamente, y durante los ocho años de gestión de Bush, los demócratas no solamente avalaron las invasiones de Irak y de Afganistán y votaron todos los presupuestos de la "guerra contraterrorista", sino que también adoptaron como propia la "versión oficial" del 11-S.

Este pacto de silencio y de encubrimiento entre la prensa y el poder imperial norteamericano preservó las verdaderas causas del  accionar terrorista de Bin laden y Al Qaeda, cuyas "amenazas" periódicas son publicadas sin ningún análisis y tal cual la difunden el gobierno y  sus organismos oficiales como la CIA y el FBI.

lundi, 14 septembre 2009

La CIA, Al Qaida et la Turquie au Xinjiang et en Asie centrale

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La CIA, Al Qaida et la Turquie au Xinjiang et en Asie centrale

Lors d'une interview à l’émission radio Mike Malloy radio show, l’ancienne traductrice pour le FBI, très connue aux Etats-Unis Sibel Edmonds a raconté comment le gouvernement de son pays a entretenu des « relations intimes » avec Ben Laden et les talibans, « tout du long, jusqu’à ce jour du 11 septembre (2001). » Dans « ces relations intimes », Ben Laden était utilisé pour des “opérations” en Asie Centrale, dont le Xinjiang en Chine. Ces “opérations” impliquaient l’utilisation d’al-Qaida et des talibans tout comme « on l’avait fait durant le conflit afghano-soviétique », c’est à dire combattre “les ennemis” par le biais d’intermédiaires.

Comme l’avait précédemment décrit Mme Edmonds, et comme elle l’a confirmé dans cette interview, ce procédé impliquait l’utilisation de la Turquie (avec l’assistance d’acteurs provenant du Pakistan, de l’Afghanistan et de l’Arabie Saoudite) en tant qu’intermédiaire, qui à son tour utilisait Ben Laden et les talibans comme armée terroriste par procuration.

Selon
Mme Edmonds : « Ceci a commencé il y a plus de dix ans, dans le cadre d’une longue opération illégale et à couvert, menée en Asie centrale par un petit groupe aux États-Unis. Ce groupe avait l’intention de promouvoir l’industrie pétrolière et le Complexe Militaro-Industriel en utilisant les employés turcs, les partenaires saoudiens et les alliés pakistanais, cet objectif étant poursuivi au nom de l’Islam. »

Le journaliste new-yorkais Eric Margolis, auteur de War at the top of the World, a affirmé que les Ouïghours, dans les camps d’entrainement en Afghanistan depuis 2001, « ont été entrainés par Ben Laden pour aller combattre les communistes chinois au Xinjiang. La CIA en avait non seulement connaissance, mais apportait son soutien, car elle pensait les utiliser si la guerre éclatait avec la Chine. »

L'action des services secrets états-uniens aux côtés des séparatistes ouïghours du Xinjiang n'est pas seulement passée par Al-Qaïda mais aussi par le milliardaire turc  domicilié à Philadelphie depuis 1998
Fetullah Gulen qui finance des écoles islamiques (madrassas) en Asie centrale, et par Enver Yusuf Turani, premier ministre autoproclamé du "gouvernement en exil du Turkestan oriental" (qui est censé englober le Xinjiang chinois)... basé à Washington. Ces personnalités sont liées à Morton I. Abramowitz, directeur du National Endowment for Democracy, qui a joué un rôle important dans le soutien aux islamistes afghans sous Reagan et aux milices bosno-musulmanes et kosovares sous Clinton (dans le cadre de l'International Crisis Group). Le vice-président étatsunien Joe Biden qui s'est répandu en propos incendiaires contre la Russie récemment est aussi sur cette ligne.

Cette politique s'inscrit dans le cadre du plan Bernard Lewis à l'origine supervisé par Zbigniew Brzezinski  sous l'administration Carter qui visait à maintenir un "arc de crise" dans les pays musulmans d'Eurasie pour faire main basse sur les ressources d'Asie centrale en hydrocarbures.

Certains observateurs soulignent cependant que vu leur dépendance économique à son égard et l'intérêt qu'ils peuvent avoir à jouer la carte de Pékin contre Moscou les Etats-Unis sont voués à garder officiellement une position modérée sur la politique de la Chine au Xinjiang (où de violentes manifestations touchent la province et provoquent la mort d'au moins 140 personnes le 5 juillet dernier) en compensation de la politique agressive de leurs services secrets dans la zone.

Pékin semble toutefois résolu à contrer les manoeuvres sécessionnistes sur son territoire, mais aussi à mener une action plus en profondeur sur le continent eurasiatique. C'est ainsi en tout cas que Nicolas Bardos-Feltoronyi, contributeur de l'atlas alternatif, analyse le prêt d'1 milliard de dollars que Pékin serait prêt à consentir à la Moldavie, pays charnière entre l'Union européenne et la Russie - un prêt sur 15 ans à un taux d’intérêt hautement favorable de 3%. Cette aide qui pourrait dissuader Chisinau de se rapprocher de l'Union européenne s'inscrirait selon l'auteur dans le cadre d'une coordination accrue des politiques étrangères russe et chinoise. C'est aussi l'analyse qu'en fait
Jean Vanitier sur son blog.

Autre réplique à l'impérialisme états-unien en Eurasie, après la Libye, l'Algérie et la Syrie, le président vénézuélien Hugo Chavez s'est rendu
le 7 septembre au Turkménistan, quatrième pays au monde pour les réserves de gaz après la Russie, l'Iran et le Qatar. Chavez a proposé à son homologue turkmène Gourbangouly Berdymoukhammedov d'adhérer au cartel gazier déjà évoqué sur ce blog. Le Turkménistan, actuellement en froid avec Moscou, est aussi très courtisé par l'Union européenne qui souhaite le voir adhérer à son projet de gazoduc Nabucco, ainsi que par la Chine.

F. Delorca
http://atlasalternatif.over-blog.com/

Le Japon bientôt libéré?

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Le Japon : bientôt libéré ?

http://unitepopulaire.org/

Second article choisi à l’occasion des élections historiques au Japon qui ont vu la semaine passée le pouvoir changer de main :

 

 

« Vingt ans après la fin de la guerre froide, la communauté internationale vit de grands changements structurels. Affaiblis par le conflit en Irak et la guerre contre le terrorisme en Afghanistan et responsables de la crise financière et économique, les Etats-Unis ont perdu leur prestige et leur assurance d’antan. L’arrivée au pouvoir de Barack Obama, qui souhaite renforcer la coopération internationale, marque la fin de l’unilatéralisme américain. De leur côté, des pays émergents comme la Chine, l’Inde et le Brésil ont accru leur influence à la faveur de la crise, tandis que des membres du G8 – et notamment le Japon – ont vu la leur décliner.

 

Face à ces bouleversements, le Japon doit fonder sa diplomatie et sa politique de maintien de la paix sur une nouvelle philosophie, affranchie de la logique de la guerre froide. Les gouvernements libéraux-démocrates qui se sont succédé jusqu’ici ont fait de l’alliance nippo-américaine le principal pilier de leur politique étrangère et sécuritaire. Ils n’ont pas cessé de préconiser son renforcement. […] Cependant, le pouvoir actuel a souvent été critiqué pour sa servilité envers les Etats-Unis. L’ancien Premier ministre Junichiro Koizumi, qui a remporté une majorité écrasante lors des précédentes élections générales en 2005, considérait qu’à l’instar des liens personnels qu’il avait noués avec le président George Bush, “meilleures seraient les relations nippo-américaines, plus le Japon aurait de chances d’en avoir de satisfaisantes avec le reste du monde, à commencer par la Chine, la Corée du Sud et les autres pays d’Asie”. Mais, à force de s’aligner sur la politique des Etats-Unis, il a fini par se couper du reste du monde.

 

Il est temps que le Japon cesse de se montrer servile vis-à-vis de Washington. Il doit adapter ses rapports avec les Etats-Unis en fonction de l’évolution de la conjoncture mondiale et renforcer ses liens avec la communauté internationale, et en particulier avec les pays asiatiques. […] Dans ses “Mesures pour 2009”, le document qui a servi de base à son programme électoral, le Parti Démocrate Japonais (PDJ) propose, comme base de sa politique étrangère et sécuritaire, de “bâtir une alliance nippo-américaine adaptée à l’ère nouvelle” et d’établir un “partenariat sur un pied d’égalité”. Dans ses “Mesures pour 2008”, le PDJ avait fait des propositions susceptibles d’être mal accueillies par les Etats-Unis. Il préconisait notamment une “révision radicale de l’accord sur le ­statut des forces américaines au Japon” et une “vérification constante” des dépenses liées au cantonnement de ces soldats sur le territoire national, notamment la prise en charge des frais générés par le redéploiement de l’armée américaine dans la région et des frais généraux des forces américaines stationnées sur l’archipel. »

 

 

Mainichi Shimbun (Japon), août 2009

 

 

NDLR1 : Ces prévisions ne sont pas sans faire penser à celles exprimées par Aymeric Chauprade dans son livre Chroniques du Choc des Civilisations (Chroniques Dargaud, 2009) lorsqu’il écrit, aux p.198 et 200 : « Ce qui oppose actuellement le Japon et la Chine pourrait bien se transformer en jour en facteur de rapprochement. […] Entre deux humiliations, celle infligée au Japon par la race blanche et celle infligée par des frères confucéens, fussent-ils ennemis séculaires, laquelle pèsera le plus dans vingt ans ? Nous sommes en Asie, une région où les peuples ne sont pas métissés, et où aucune des "maladies" importées de l’Occident (individualisme, hédonisme, vieillissement démographique) n’a altéré la cohésion ethnique des groupes humains. […] Plus les années vont passer, plus la réalité économique du Japon va diverger de celle des Etats-Unis au profit de cette sphère de co-prospérité asiatique. »

 

NDLR2 : Le fait d’avoir choisi pour illustrer cet article une photo du grand écrivain et combattant Yukio Mishima ne sous-entend évidemment pas que nous comparons le Parti Démocrate Japonais à l’auteur de Confession d’un Masque, mais il nous semble que dans l’imaginaire national japonais, Mishima est peut-être le plus à même de symboliser le réveil et l’autonomie du Japon.

Tango, politica y mal gusto

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Tango, política y mal gusto

 

Alberto Buela(*)

 

Hace tres años escribimos un artículo titulado ¿El renacer del tango? en donde sosteníamos que el renacer es posible. Hoy queremos ocuparnos de cómo el mal gusto ha invadido el tango.

Pero primero tenemos que definir qué entendemos por gusto.  Los antiguos decían que la belleza era splendor veri, esplendor de la verdad. El esplendor es el fulgor de luz que emana de la cosa bella y la verdad es lo que brilla. La obra de arte es aquello a través de lo cual brilla la verdad. Y una cosa es bella no porque me agrade, dice el filósofo Kant, sino que me agrada porque es bella. Y cómo capto esta belleza? A través del juicio del gusto. Y cómo consolido este juicio? Cuando me voy educando en la belleza, de lo contrario prima el mal gusto o la vulgaridad. Es por eso que los griegos, los romanos, los medievales y hasta los renacentistas educaron siempre a través de los arquetipos bellos y virtuosos como los héroes, los santos y los sabios.

Es un lugar común y no menos cierto que desde hace una docena de años el tango comenzó a renacer. Esto es un hecho verificable que cualquiera puede comprobar recorriendo la multiplicación de las milongas, las orquestas, los cantantes y los bailarines que son los cuatro elementos indispensables para la realización plena del género musical: tango.

Solo faltan multiplicarse los canales de TV (existe sólo uno) y las radios (son dos o tres) en Buenos Aires.

El desarrollo histórico del tango ha sido estudiado por innumerables investigadores que lo han hecho en forma acabada. De estos estudios (Ferrer, Barcia, Gobello, García Giménez, del Priore, etc.) podemos establecer las siguientes etapas:

a)     su nacimiento campero y orillero: “nació en los Corrales Viejos allá por el año 80, hijo fue de la milonga y de un taita del arrabal”.

b)     etapa del tango criollo donde Gardel, Saborido, Gobbi, Arolas consolidan el género.

c)      todos están de acuerdo que con Pascual Contursi se inaugura la etapa de plenitud del tango.

d)     la revolución libertadora de 1955 lo prohíbe como manifestación masiva y comienza una larga etapa de decadencia con la primacía del mal gusto.

e) Es a partir del gran espectáculo en París (1982): trottoires de Buenos Aires, con un cantor no gritón como Goyeneche, una pareja de baile no-acrobática como Gloria y Eduardo, y una orquesta sobria, el tango comienza lentamente su renacer. A lo que hay que sumar el impulso europeo de Piazzola con el tango para escuchar.

 

Pero ¿por qué decayó el tango desde el 55 al 81?.

En primer lugar existe una razón política fundamental, como muy bien estudió mi amigo y bailarín eximio Atilio Verón, la llamada revolución libertadora lo prohibió como espectáculo multitudinario. No querían ver a las masas juntas, querían el pueblo suelto, porque el pueblo seguía siendo peronista, y Perón era el enemigo odiado y execrado. En una palabra, era el Diablo para los generales golpistas y los gorilas.

 

El segundo elemento que juega en la decadencia del tango es la introducción del rock norteamericano promocionado y difundido a diestra y siniestra por todos los mass media de la época. Se inaugura la influencia directa, caído el peronismo, de los Estados Unidos sobre nuestra juventud a través de la música y de la comida. Junto al rock aparece la hamburguesa.

 

 

El tercer elemento fundamental en este arrastre decadente del tango es: el mal gusto. Y este mal gusto estuvo vinculado desde siempre a la televisión. Primero fue la Familia Gesa en el canal 7 con Virginia Luque y cuanta cachirulada se le podía sumar. Y luego, Grandes valores del tango con Silvio Soldán que no dejó vulgaridad por realizar. Vulgaridad, chabacanería y kisch que continúa hoy mismo realizando, ahora para la televisión de un gobernador “raro” como el de San Luis o para canal 26 de cable. Una vulgaridad irreductible al desaliento.

 

Y así, el pueblo argentino, fue sometido treinta años, dos generaciones, a la prepotencia del mal gusto en todo lo que hace al tango. Orquestas con mil variaciones sobre las piezas que las hacía  imbailables, cantores que a los gritos buscaban impresionar, recordemos a Sosa, Dumas, Lavié, Rinaldi et alii y  bailarines acrobáticos como Copes y tantos otros, que nadie podía seguir.

Frente a esta avalancha del mal gusto, en forma silenciosa, sin decirlo, pero haciéndolo, hoy ninguna milonga pasa un tango de Sosa, Dumas, Lavié, Rinaldi y esa pléyade de cantores-espectáculo, porque no llevan el ritmo de la danza ni el tiempo de la música.

 

Es cierto que durante ese período, el de la decadencia, hubo excepciones en cantores como Goyeneche o Floreal Ruíz, en orquestas como la de Pugliese o Trolio, en bailarines como Virulazo o Gavito y en programas como La Botica del Angel de Vergara Lehumann, pero no podían sobreponerse a la ola gigantesca del mal gusto encarnada por Silvio Soldán y sus ramplones invitados, promocionados masivamente por la televisión. 

 

El pueblo argentino asistió como convidado de piedra, al menos por dos generaciones, al vaciamiento del tango y sus sentidos.

 

Hoy casi llegando el centenario, a medio siglo de su prohibición masiva, asistimos al renacer del tango. Jóvenes cantores que no cantan a los gritos sino melodiosamente y letras no lloronas, noveles orquestas que no imitan pero que tampoco caen en “ocurrencias” más o menos novedosas, como todas las variaciones infinitas de los Stampone, Garello, Federico, Baffa, Berlingieri o Libertella. Bailarines que no se disfrazan de tangueros haciendo las mil piruetas de acróbata berreta, sino que bailan “al piso”como Gavito o del Pibe Sarandí. En fin, todo un renacer. Claro que desplazar al mal gusto, a la cachirulada, que tiene medios materiales y hace medio siglo que está instalada es más difícil que mear en un frasquito como diría un reo. Pero, no obstante, las figuras van saliendo y el tango se está volviendo a plantear y a presentar como un todo: orquesta, cantor, bailarines y ambiente.

 

Como será la prepotencia de la vulgaridad que acaba de ganar una pareja nipona el campeonato mundial de tango salón en un final de treinta parejas la mayoría argentinas. Y qué fue lo que se destacó en los japoneses: la elegancia, el buen gusto en el vestir frente a los ropas chillonas y la ramplonería de la vestimenta de las parejas argentinas: bailarines con zapatos de charol blanco y bailarinas lentejuelas de oropel. La colonización cultural del mal gusto en el tango argentino ha creado toda una industria de la vestimenta cachirula, que lamentablemente los turistas extranjeros compran e importan sin criterio.

 

 

Vemos como persisten, no se jubilan ni se retiran, los falsos y ordinarios espectáculos de tango para “la gilada”, o sea, los turistas.

Hay mucho dinero en juego alentando y medrando con la vulgaridad. Léase: Señor Tango en Barracas o Bocatango. Es que el  carácter de prosaico, de mal gusto, de kisch, de vulgar, de ramplón se le ha metido hasta el tuétano, hasta el orillo. Eliminar esto, es la tarea fundamental de este renacer tanguero. Esto es lo que propuso en plena decadencia (el 7 de octubre de 1969) Jorge Luis Borges, con quien disentimos políticamente, pero no podemos dejar de reconocer que, si algo fue: “fue un parapeto a la mediocridad” en el tiempo que le tocó vivir. Y allí afirma con su clásica ironía borgeana: “este tango que se toca ahora es demasiado científico”. Había  perdido su carácter de genuino, era una impostura vulgar.

 

Escribimos esperanzados en que este renacer del tango deje de lado, rápidamente, lo prosaico y pueda reconstruir en un sano equilibrio las cuatro patas en que se debe apoyar todo tango genuino: orquesta, cantor, bailarines y milonga, o sea, música armoniosa, cantor acorde, bailarines a ritmo y ambiente apropiado.

Cualquiera de ellas que falte o que se sobre estime, hace que esa gran mesa que es el tango y en la que, de una u otra manera, comemos todos los argentinos, se desequilibre.

 

Post Scriptum: 

Hay un escritor argentino Ricardo Piglia, quien enseña en la universidad de Princeton hace muchos años literatura y seminarios sobre tango, donde sostiene expresamente: “El tango tiene, como tienen los grandes géneros, un comienzo y un final muy claros. Ya sabemos que el primer tango fue “Mi noche triste” de 1917, y yo digo un poco en broma y un poco en serio que el último es “La última curda”, de 1956. Después de ese tango lo que se hizo fue otra cosa, porque se perdió la idea de situación dramática que sostiene y controla toda la argumentación poética, y empezó ese sistema de asociación libre, de surrealismo un poco berreta del violín con el gorrión y la caspa con el corazón”. (La Nación, suplemento ADN,  Bs.As. 19/4/08, p. 7).

 

 

(*) filósofo, o mejor arkegueta, eterno comenzante

alberto.buela@gmail.com

dimanche, 13 septembre 2009

Le Japon: un pays occupé

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Le Japon : un pays occupé

 

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Premier article choisi à l’occasion des élections historiques au Japon qui ont vu la semaine passée le pouvoir changer de main :

 

 

 

« "Le niveau de frustration des Japonais au sujet des exigences des Etats-Unis est tel que toutes les initiatives politiques de Washington, même celles qui sont dans l’intérêt du pays, rencontreront une résistance. L’Amérique ne le sait sans doute pas, mais elle est en train d’écraser l’identité du peuple japonais et celui-ci, à la longue, ne l’acceptera pas". Assez inhabituel, ce franc-parler de M. Makoto Utsumi, ancien haut fonctionnaire, touche du doigt un des aspects négligés mais centraux de l’interminable crise japonaise : l’emprise américaine sur une société devenue incapable de définir des objectifs nationaux et de se donner un rôle politique à la mesure de son poids économique. La corruption, l’immense gaspillage de ressources dans de grands projets inutiles et l’incompétence affligeante de la caste dirigeante issue du Parti libéral démocrate (PLD) ne sont certes pas directement imputables à cette dépendance externe. Mais les Etats-Unis ont, dans une large mesure, façonné le système en construisant, au lendemain de la seconde guerre mondiale, une relation entièrement destinée à servir leurs intérêts.

Sous l’impulsion du secrétaire d’Etat américain John Foster Dulles, cet obsédé de l’anticommunisme, ils ont transformé l’ex-ennemi japonais en allié, en satellite et en agent des Etats-Unis dans la confrontation contre l’Union soviétique et la République populaire de Chine. Au nom de la guerre froide et en réaction à la victoire du Parti communiste chinois en 1949, ils ont abandonné leur projet initial de démocratisation du Japon et stimulé l’émergence d’une caste d’élite qui a monopolisé pendant près de soixante ans le pouvoir, favorisant ainsi la connivence, le clientélisme et la corruption plutôt que l’intérêt général. Ils ont dominé l’économie politique du pays et limité son autonomie. […]

 

L’incapacité du pays à mener à bien des réformes dans la décennie suivante n’a pas été le résultat d’une trop forte intervention de la bureaucratie dans la gestion économique. Au contraire, elle tient à l’autonomisation des intérêts privés et corrélativement à la faiblesse de l’intervention publique dans la mise en oeuvre de la politique économique du pays. Comme l’a souligné M. Joseph Stiglitz, ancien économiste en chef de la Banque mondiale et Prix Nobel d’économie, "la régulation est devenue le bouc émissaire, alors que le véritable coupable était un manque de contrôle".

 

Les critiques du modèle nippon cherchent à discréditer toute autre voie que le modèle américain et à créer des fondations idéologiques solides pour la poursuite de l’ordre dominant libéral centré aux Etats-Unis. Ils visent en particulier l’"Etat développeur" capitaliste d’Asie orientale. Les idéologues américains ignorent superbement les fondements culturels du dirigisme économique dans nombre de pays d’Asie orientale : ils orientent l’économie vers le long terme, alors que les finalités du capitalisme actionnarial américain se résument à l’accumulation à court terme. De plus, ces idéologues exagèrent jusqu’à la caricature les bienfaits supposés du système américain.

 

Comme le souligne l’auteur anglais John Gray, "c’est une caractéristique de la civilisation américaine que de concevoir les Etats-Unis comme un modèle universel, mais cette idée n’est acceptée par aucun autre pays. Aucune culture européenne ou asiatique ne peut tolérer la déchirure sociale – dont les symptômes sont la criminalité, l’incarcération, les conflits raciaux et ethniques, et l’effondrement des structures familiales et communautaires – qui est l’envers du succès économique américain".

 

Au fond, le problème du Japon ne relève pas de l’économique, mais du politique. Le Parti libéral démocrate (PLD), au pouvoir depuis 1949, est corrompu et incompétent. Son ancien rôle de bastion anticommuniste n’a plus aucune espèce de pertinence. Mais les Américains adorent le PLD, seul parti politique du pays à être suffisamment indifférent à la souffrance et à l’humiliation des habitants d’Okinawa (ou des autres populations vivant à proximité des 91 bases militaires des Etats-Unis) pour servir d’agent de Washington. Au cours des dernières décennies, ils ont déboursé des sommes immenses pour soutenir leurs affidés du PLD et diviser le camp progressiste et socialiste. »

 

 

Chalmers Johnson, président du Japan Policy Recherche Institute (JPRI), "Les impasses d’un modèle : cinquante années de subordination", Le Monde Diplomatique, mars 2002

jeudi, 10 septembre 2009

PRESSESCHAU (Sept. 09 - 1)

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PRESSESCHAU - September 2009 (1)

Einige Links. Bei Interesse anklicken...



Afghanistan-Krieg
Obama will mehr Soldaten von Deutschland
Der August wird der Monat mit den höchsten Verlusten für die USA in Afghanistan seit Beginn des Militäreinsatzes. US-Präsident Obama fordert nach SPIEGEL-Informationen nun mehr deutsche Truppen – allerdings machen der Bundeswehr am Hindukusch schon jetzt Personalnot und marode Ausrüstung zu schaffen.
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,645785,00.html

Weißer Südafrikaner als Flüchtling anerkannt
Kanada hat einen weißen Südafrikaner als „rassistisch Verfolgten“ anerkannt. Der regierende ANC tobt. Der Mann war insgesamt sieben Mal von Schwarzen überfallen worden. Er gab an, die Regierung unternehme nichts in Sachen Kriminalität gegen Weiße. Die Einwanderungsbehörde befand, daß der Weiße „eher ein Opfer wegen seiner Rasse als ein Opfer von Kriminalität ist“. Anerkennung eines Rassismus gegen Weiße – im politisch korrekten Europa unvorstellbar!
http://www.pi-news.net/2009/09/weisser-suedafrikaner-als-fluechtling-anerkannt/
http://afrikaner-genocide-achives.blogspot.com/

Weißrußland
Lukaschenko gesteht Wahlfälschung – nach unten
http://www.welt.de/politik/ausland/article4414017/Lukaschenko-gesteht-Wahlfaelschung-nach-unten.html
http://diepresse.com/home/politik/aussenpolitik/504697/index.do?from=gl.home_politik

Israel
Olmert wegen Korruption angeklagt
http://www.faz.net/s/RubDDBDABB9457A437BAA85A49C26FB23A0/Doc~EE6EAC992EF52477E833BA2DE0ED27A69~ATpl~Ecommon~Scontent.html
http://de.euronews.net/2009/09/01/israels-justiz-greift-in-der-polit-szene-durch-/

Schutz Homosexueller soll ins Grundgesetz
HAMBURG. Die Hamburger Bürgerschaft setzt sich dafür ein, den Schutz Homosexueller vor Diskriminierung im Grundgesetz zu verankern. Sowohl die Regierungsparteien CDU und Grüne als auch die oppositionellen Sozialdemokraten haben angekündigt, einem solchen Antrag zuzustimmen.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M50ba891e14d.0.html

Studie
Finanzkrise vernichtete bislang 10,5 Billionen Dollar
Von Martin Greive
Ein Jahr nach der spektakulären Pleite der US-Investmentbank Lehman Brothers kommt die ganze Wahrheit ans Licht. Laut einer aktuellen Berechnung für WELT ONLINE hat der Kollaps der Finanzwirtschaft weltweit einen Schaden von 10,5 Billionen Dollar verursacht – davon ein beträchtlicher Teil in Deutschland. Doch der Crash hat auch etwas Gutes.
http://www.welt.de/wirtschaft/article4418941/Finanzkrise-vernichtete-bislang-10-5-Billionen-Dollar.html

Extrem-Geothermie
Forscher holen Hitze aus Hannovers Boden
Von Henning Zander, Hannover
In Deutschland läßt sich die Erdwärme kaum nutzen, dachte man bisher. Forscher wollen nun das Gegenteil beweisen. In der norddeutschen Tiefebene bohren sie ein vier Kilometer tiefes Loch. Die Hitze aus dem Inneren der Erde könnte Deutschlands Energieproblem lösen.
http://www.spiegel.de/wirtschaft/unternehmen/0,1518,646096,00.html

Günter Kießling
Einst gedemütigter Bundeswehr-General gestorben
http://www.focus.de/politik/deutschland/guenter-kiessling-einst-gedemuetigter-bundeswehr-general-gestorben_aid_430529.html

Streit um Hessischen Kulturpreis beigelegt
Christliche Preisträger nun doch für Kermani
http://www.faz.net/s/Rub9B4326FE2669456BAC0CF17E0C7E9105/Doc~E105DF3DDEDC344F3AC870C478B9E3A96~ATpl~Ecommon~Scontent.html

Euthanasie
von Karlheinz Weißmann
Die Interviews auf der letzten Seite von „Bilder und Zeiten“ können mich immer wieder überraschen. Oft bittet die FAZ jemand zum Gespräch, dessen Name mir noch nie begegnet ist. So auch im Fall von Carl-Henning Wijmark, einem schwedischen Autor, der seinen Ruhm vor langer Zeit mit einer „pornographischen Nazi-Satire“ begründete und seit Beginn des neuen Jahrhunderts als „Vordenker der Demographie-Debatte sichtbar“ wurde.
Sei dem, wie dem sei. In dem Interview, das Wijmark am vergangen Sonnabend gegeben hat, ging es jedenfalls um Euthanasie und vor allem um die Tendenz in seiner skandinavischen Heimat wie in der Schweiz, den Niederlanden und Belgien, aktive Sterbehilfe an alten Menschen zu legalisieren.
http://www.sezession.de/6670/euthanasie.html#more-6670

Menschwerdung
von Anni Mursula
Seit dem Zweiten Weltkrieg ist in Deutschland wohl kaum etwas so heilig wie die Menschenwürde. Sie ist der unantastbare Kern des Grundgesetzes und steht niemals zur Diskussion.
Doch in der Realität gilt der Schutz der Menschenwürde nicht für das ungeborene Leben. Um die Argumentation für die Abtreibung dennoch ethisch und gutmenschlich akzeptabel zu machen, wird immer suggeriert, daß ein Embryo erst Mensch werden muß, um die Menschenrechte zu erhalten.
Wo dieses Menschsein anfängt, wird beliebig verschoben: Mal ist es nach der Einnistung des Embryos, mal nach der zwölften Schwangerschaftswoche, mal ist eine vermutete Behinderung des Ungeborenen Grund genug, ihm das Lebensrecht abzusprechen. Wird eine Behinderung diagnostiziert, kann das Kind bis zum Einsetzen der Wehen abgetrieben werden. (Vorausgesetzt die Mutter sagt, sie komme damit psychisch nicht zurecht.)
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M52e05a9d96d.0.html

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Ziemlich scharfer, aber letztlich doch recht treffender Kommentar aus der Diskussion zur Abtreibungsfrage im JF-Leserforum:

(...) Abtreibung ist illegitim, sofern sie aus Egoismus und Lebensfeindlichkeit geschieht. Anders sieht es bei der kriminologischen (nach Vergewaltigung) und der medizinischen Indikation aus (bei Lebensgefahr für die Mutter bzw. schwerer Schädigung des Kindes). Hier halte ich Abtreibung für absolut legitim und notwendig.

Wem ist damit gedient, wenn Paare mit Kinderwunsch nach der Geburt eines schwerbehinderten Kindes, das nun ihre lebenslange Fürsorge verlangt, so gebunden sind, daß sie in der Folge häufig auf weitere Kinder verzichten, obwohl sie aller Wahrscheinlichkeit noch gesunden Nachwuchs hätten haben können? Auch dies ist lebensfeindlich, da im Ergebnis das biologische Aussterben dieser Erblinien steht. Ich weiß nicht, was daran konservativ sein soll.

Deshalb stehe ich auch der Pränatal- und Präimplantationsdiagnostik keineswegs negativ gegenüber. Sofern sie verantwortungsvoll eingesetzt werden (d.h. lebensdienlich und damit im besten Sinne konservativ), können derartige eugenische Maßnahmen durchaus ein Segen sein. Darüber sollten die christlich-konservativen Heuchler und Pharisäer mit ihrem wie eine Monstranz vor sich hergetragenen Gutmenschentum mal nachdenken!

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Rot-Rot-Grün
Linke träumen von der Macht im Land
Die Landtagswahlen könnten eine historische Zäsur bedeuten. Möglicherweise wird es erstmals rot-rot-grüne Landesregierungen geben – gleich im Doppelpack. Sowohl im Saarland als auch in Thüringen zeigt sich insbesondere die Linke enorm stark. Schon warnen die Mahner.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,645908,00.html

Planmäßige Ausgrenzung
Von Mina Buts
Darf ein guter Pfadfinder heutzutage ein Zugabteil mit Jugendlichen vom Freibund teilen? Die Antwort lautet ganz klar: Nein, darf er nicht! Zu groß ist die Gefahr, etwas von dem Gedankengut, das im Freibund vertreten wird, könne auf die Pfadfinder übertragen werden.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M57eedf1305f.0.html

Einer der ewigen Stichwortgeber hat sich mal wieder gemeldet
GdP-Vorsitzender Konrad Freiberg: Polizei warnt vor Gewalt durch Neonazis
http://www.focus.de/politik/weitere-meldungen/rechtsextremismus-polizei-warnt-nach-festnahme-von-bombenbauer-vor-eskalation_aid_430369.html

Attac-Geschäftsführerin Sabine Leidig wechselt zur Linkspartei
http://www.pressrelations.de/new/standard/result_main.cfm?r=380104&sid=&aktion=jour_pm&quelle=0&n_firmanr_=109361&pfach=1&detail=1&sektor=pm&popup_vorschau=0
http://www.bild.de/BILD/regional/frankfurt/dpa/2009/08/28/spitzenkandidatin-leidig-tritt-in-die-linke.html

Mythen
Die Feuer der Hölle
Der als Polizistenmörder verurteilte schwarze Autor Mumia Abu-Jamal ist der berühmteste Todeskandidat der Welt. Linke verehren ihn, die Witwe Maureen Faulkner aber kämpft für ihre Wahrheit. Nun sieht es so aus, als würde sie gewinnen. Von Cordula Meyer
http://www.spiegel.de/spiegel/0,1518,645083,00.html

Die taz-Journalistin und Egon Flaig
von Thorsten Hinz
Unlängst wurde in Berlin-Kreuzberg eine taz-Journalistin von einem Türken angesprochen, und zwar von hinten: „Zieh dir einen BH an, es stört mich, wie du rumläufst.“ Der Mann war um die 30, die Frau anderthalb Jahrzehnte älter. „In dem Moment war ich nur wortlos, geplättet und fühlte mich erniedrigt“, berichtete sie. „Welches Recht nehmen sich solche Typen eigentlich heraus, nicht nur über die Kleidung fremder Frauen zu urteilen, sondern ihnen dieses Urteil auch noch in einem Befehlston mitzuteilen?“
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M568653a1779.0.html

Im Bundestag notiert: Gedenktafel für gefallene deutsche ISAF-Soldaten
Verteidigung/Kleine Anfrage
Berlin: (hib/AW/STO) Die Fraktion Die Linke möchte von der Bundesregierung wissen, warum die Gedenktafel für gefallene deutsche ISAF-Soldaten auf dem internationalen Friedhof in Kabul in Nähe zum Grab von Manfred Oberdörffer errichtet wurde. In ihrer Kleinen Anfrage (16/13902) führt die Fraktion an, Oberdörffer habe der „nationalsozialistischen Wehrmacht-Spezialeinheit ,Brandenburg‘“ angehört und sei 1941 „als Geheimagent zur Vorbereitung einer weiteren Angriffsfront der faschistischen Kriegsführung in Asien“ gestorben.

Deserteur-Denkmal in Köln eingeweiht
von Hinrich Robohm
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M5726d8d7820.0.html

Das Trauma
von Thorsten Hinz
Am 70. Jahrestag des Kriegsausbruchs wird Kanzlerin Merkel sich zu einer Gedenkveranstaltung in Danzig einfinden. Dort wird sie verbreiten, was sie eben auf einer Vertriebenenveranstaltung sagte: daß die Vertreibung „unmittelbare Folge deutscher Verbrechen“ war und es „kein Umdeuten der Geschichte“ gibt.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M53b5d627f41.0.html

So sieht’s der Pole ...
Zweiter Weltkrieg
Die andere Erinnerung an 1939
Wenn Angela Merkel und Wladimir Putin kommende Woche nach Danzig reisen, werden sie bei der Gedenkfeier zum Kriegsbeginn vor 70 Jahren mit Polens Sicht auf den Überfall (sic!) konfrontiert werden. Auf SPIEGEL ONLINE erklärt Pawel Machcewicz, Berater von Premier Donald Tusk, warum die Polen den Zweiten Weltkrieg anders erinnern – und dem deutschen Gedenkbetrieb mißtrauen.
http://einestages.spiegel.de/static/topicalbumbackground/4823/die_andere_erinnerung_an_1939.html

Sven Felix Kellerhoff von der WELT hetzt gegen Scheil und Schultze-Rhonhof ...
„Polen wartet, fast fatalistisch“
Von Sven Felix Kellerhoff
Hitlers Schuld am Zweiten Weltkrieg steht eindeutig fest. Dennoch verkaufen sich apologetische Bücher zum 1. September 1939 gut
http://www.welt.de/die-welt/kultur/article4437824/Polen-wartet-fast-fatalistisch.html

Scheil und Schultze-Rhonhof
Von Götz Kubitschek
Die Historiker Stefan Scheil und Gerd Schultze-Rhonhof sind ziemlich erfolgreich in ihrem Versuch, die Diplomatiegeschichte im Vorfeld des Zweiten Weltkriegs einer Revision zu unterziehen. Während „die Zunft“ ihrer Fachkollegen die Auseinandersetzung mit ihnen scheut, kauft das Publikum die gut lesbaren und in redlichem Ton verfaßten Bücher in großen Stückzahlen.
Deshalb versucht Sven Felix Kellerhoff in der heutigen „Welt“, einen weiteren Riegel vor dieses aus seiner Sicht unstatthafte Treiben zu schieben. Weil ihm das inhaltlich nicht gelingen kann, muß er zum Denunziationsinstrumentarium greifen.
http://www.sezession.de/7044/scheil-und-schultze-rhonhof.html#more-7044

Die polnische Besetzung von Gleiwitz
von Stefan Scheil
Die Ansichten über Ursachen und Verantwortungen für den Ausbruch des Zweiten Weltkrieges sind in Bewegung gekommen, davon zeugen ausnahmsweise sogar einige Beiträge in großen deutschen Zeitungen.
http://www.sezession.de/7049/die-polnische-besetzung-von-gleiwitz.html

Der Weg in den Krieg
BERLIN. Vor siebzig Jahren begann mit der Beschießung der Westerplatte bei Danzig der Zweite Weltkrieg. Die Ursachen für den Konflikt, der sich schließlich zum Weltbrand ausweitete, liegen jedoch weiter zurück.
In einer Serie für die JUNGE FREIHEIT erläutert Generalmajor a. D. Gerd Schultze-Rhonhof die Vorgeschichte des 1. September 1939.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M5d6eb49d759.0.html

Generalmajor a.D. Gerd Schultze-Rhonhof über die Ursachen des Zweiten
Weltkriegs. Knapp einstündige Rede
http://video.google.com/videoplay?docid=-1423208573050100159&hl=de

Ein Kino-Film sollte den „Überfall“ rechtfertigen
Von Hanns-Georg Rodek
Es ist ein Bild, aus unzähligen amerikanischen Western vertraut: ein Treck, der bis zum Horizont reicht, Siedler in ihren Planwagen auf dem Weg gen Westen, wo ein neues, besseres Leben auf sie wartet. Auch das deutsche Kino hat solch eine Szene aufzuweisen. Sie stammt aus „Heimkehr“, und auch hier fährt eine unendlich lange Kolonne von Siedlerwagen ins gelobte Land, nach Westen, „heim ins Reich“.
http://www.welt.de/die-welt/kultur/article4437822/Ein-Kino-Film-sollte-den-Ueberfall-rechtfertigen.html

Geschichte, die nicht vergeht
Von Gerhard Gnauck
Auch 70 Jahre nach Ausbruch des Zweiten Weltkriegs ringen Europas Politiker um die richtigen Worte
http://www.welt.de/die-welt/kultur/article4437829/Geschichte-die-nicht-vergeht.html

Zweiter Weltkrieg
Polen warnt vor „Verfälschung“ der Geschichte
Genau heute vor siebzig Jahren beschoß das deutsche Kriegsschiff „Schleswig-Holstein“ das zur Festung ausgebaute polnische Munitionsdepot in Danzig. Polens höchste Repräsentanten haben nun bei der Gedenkfeier zu Beginn des Zweiten Weltkriegs an die Verantwortung Deutschlands erinnert. Sie warnten davor, die Geschichte zu vergessen.
http://www.welt.de/politik/ausland/article4438278/Polen-warnt-vor-Verfaelschung-der-Geschichte.html

Ansonsten wären die polnischen Ulanen wohl vermutlich schon bis Berlin vorgedrungen gewesen ...
Gedenken an Zweiten Weltkrieg
Kaczynski wirft Sowjetunion „Messerstich in den Rücken“ vor
Polens Präsident hat bei der Gedenkfeier zum Ausbruch des Zweiten Weltkriegs scharfe Töne gegen die frühere Sowjetunion angeschlagen: Stalin habe Polen mit dem Einmarsch der Roten Armee im September 1939 einen tödlichen Stoß versetzt, sagte Lech Kaczynski.
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,646181,00.html

Polen
Merkel, Putin und Kaczynski gedenken Beginn des Zweiten Weltkriegs
Bundeskanzlerin Merkel, Rußlands Ministerpräsident Putin und weitere Politiker haben in Polen mit Präsident Lech Kaczynski eine Zeremonie zum Gedenken an den Beginn des Zweiten Weltkriegs begonnen. Auf der Westerplatte in Danzig wurde ein Kranz niedergelegt. Merkel unterstrich Deutschlands Verantwortung für den Zweiten Weltkrieg, Kaczynski würdigte Soldaten, die gegen Nazi-Deutschland kämpften.
http://www.focus.de/panorama/vermischtes/polen-merkel-putin-und-kaczynski-gedenken-beginn-des-zweiten-weltkriegs_aid_431595.html

Zitat Donald Tusk: „Wir sind hier zusammengekommen, um daran zu erinnern, wer den Krieg begonnen hat, wer der Schuldige war, wer der Henker in dem Krieg war und wer das Opfer der Aggression war.“

Polen: „Für Demut kein Grund“
DANZIG. Um Viertel vor fünf, siebzig Jahre nach den ersten Schüssen des deutschen Linienschiffes „Schleswig-Holstein“ auf das polnische Munitionsdepot auf der Westerplatte im damaligen Freistaat Danzig, haben die Spitzen des polnisches Staates die nationalen Gedenkfeierlichkeiten eröffnet. Staatspräsident Lech Kaczyński (PiS) und Ministerpräsident Donald Tusk (PO) warnten in ihren Ansprachen vor Umdeutungen der Geschichte.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M5d574615fdf.0.html

Das Merkel übertrifft sich mal wieder selbst. Hündischer geht’s nicht ...
„Ich verneige mich vor den Opfern“
Von Lars-Broder Keil
Merkel bekennt sich in Danzig zur „immerwährenden Verantwortung“ Deutschlands für Kriegsleid und Holocaust
http://www.welt.de/die-welt/politik/article4444950/Ich-verneige-mich-vor-den-Opfern.html

1. September 2009. Kanzlerin Merkel erinnert an deutsche Kriegsschuld und betont „immerwährende geschichtliche Verantwortung“ (was immer das sein soll) ...
http://www.google.com/hostednews/afp/article/ALeqM5iaIDwS-IoF6I0AyAOeHlngI1ahcA
http://derstandard.at/fs/1250691529347/Ueberfall-auf-Polen-Merkel-bekennt-sich-zu-Deutschlands-Schuld
http://www.abendblatt.de/politik/deutschland/article1165031/Kanzlerin-Merkel-verneigt-sich-vor-Kriegsopfern.html
http://www.focus.de/panorama/vermischtes/70-jahrestag-des-zweiten-weltkriegs-merkel-bekennt-sich-zur-geschichtlichen-verantwortung-deutschlands_aid_431797.html

Putin erkennt russische Kriegsschuld nicht an
70 Jahre Kriegsbeginn
Alle warten auf Putin – doch der schweigt zu Stalin
http://www.welt.de/politik/deutschland/article4443063/Alle-warten-auf-Putin-doch-der-schweigt-zu-Stalin.html

Geschichte im „Stern“
Angriff auf Polen:
Der Weg in den Vernichtungskrieg
http://www.stern.de/politik/deutschland/angriff-auf-polen-der-weg-in-den-vernichtungskrieg-1506349.html

Wolfgang Venohr, Kriegsschuld und die Deutschen in Polen
von Dieter Stein
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M5297d164e6f.0.html

Mehrheit der Polen heißt „Zwangsaussiedlungen“ gut
Eine überwältigende Mehrheit der Polen sieht die Zwangsaussiedelungen der Deutschen nach dem Zweiten Weltkrieg als gerechtfertigt. Zwischen 1939 und 1945 kamen sechs Millionen Polen (sic!) gewaltsam ums Leben.
http://diepresse.com/home/politik/zeitgeschichte/505236/index.do?_vl_backlink=/home/politik/index.do

Ein Beispiel für deutschen „Schuldstolz“ ...
Kolumne Kopfwelten: Hitlers Erbe
70 Jahre ist der Beginn des 2. Weltkriegs her. Muß sich auch die Internet-Generation noch schuldig fühlen für die Verbrechen ihrer Urgroßväter? Neue psychologische Forschungen geben eine Antwort. Von Frank Ochmann
http://www.stern.de/wissen/mensch/muskeltest/kolumne-kopfwelten-hitlers-erbe-1506473.html

Über die Vorgeschichte wüßte man gerne mehr ...
Massaker
Wie die Deutschen im polnischen Borów metzelten
Von Gerhard Gnauck
750 Dörfer metzelten die Wehrmacht und die deutschen Polizeikräfte in Polen nieder, darunter Borów. Konrad Schuller hat seine Bewohner besucht und mit den letzten Überlebenden gesprochen. In einer packenden Reportage erzählt er von ihrem Leid, aber auch von den Tätern und was sie nach 1945 trieben. [Interessant sind auch die Leserkommentare!]
http://www.welt.de/kultur/literarischewelt/article4417880/Wie-die-Deutschen-im-polnischen-Borow-metzelten.html

SPIEGEL-TV: Hitlers Westfeldzug
http://www.spiegel.de/video/video-1018716.html

Letzter Senf zu Tarantino
Von Thorsten Hinz
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M590401dd143.0.html

Ein Besuch lohnt sich ...
Staats- und Wirtschaftspolitische Gesellschaft e.V.
http://www.swg-hamburg.de/index.html

Die englischsprachige Ausgabe von SPIEGEL Online über den Umgang der heutigen Deutschen mit der Schlacht im Teutoburger Wald ...
Battle of the Teutoburg Forest
Germany Recalls Myth That Created the Nation
By David Crossland in Kalkriese, Germany
http://www.spiegel.de/international/germany/0,1518,644913,00.html

Schöppingen auf der Flucht vor Rechts
In Schöppingen ist man auf der Flucht vor der rechten Gefahr. Selbst nachdem ein 18jähriger einem irakischen Asylbewerber zum Opfer gefallen ist, wird sorgfältig nur nach rechts geschaut. So dient denn auch dieser Mord dem „Kampf gegen Rechts“. Zu den Trauerfeierlichkeiten am Donnerstag schickte die Antifa Wächter vorbei, und am Freitag wurden die Schüler vorzeitig entlassen, weil angeblich Rechtsextreme die Schule stürmen wollten.
Die Westfalennachrichten schieben den vorgezogenen Schulschluß nach Angaben des Schulleiters auf „aktive Trauerbewältigung“. Eine Drohung habe es nicht gegeben. Schöppinger Eltern kommentieren.
http://www.pi-news.net/2009/08/schoeppingen-auf-der-flucht-vor-rechts/

Schulschließung: „Alles nur geträumt?“
Schöppingen – Wurden die Schulen in Schöppingen am Freitag vorzeitig geschlossen, weil mit den trauernden Schülern nach dem gewaltsamen Tod eines 18jährigen ein normaler Unterricht nicht mehr möglich war? Oder gab es – anders als Polizei und Schulen es darstellen – doch anonyme Drohungen, die zu diesem Schritt veranlaßten? Darüber wird in Schöppingen inzwischen kontrovers diskutiert. Polizei und Schulleitungen hatten am Freitag auf Anfrage der WN mitgeteilt, daß das vorzeitige Unterrichtsende nur aufgrund der Stimmungslage der Schüler erfolgt sei. Ein Polizeisprecher verneinte auf konkrete Nachfrage, daß es Drohungen gegeben habe. Die Polizei blieb auch am Wochenende bei dieser Darstellung. Ein Sprecher der Kreispolizeibehörde Borken machte auf erneute Anfrage der WN deutlich, daß der vorzeitige Unterrichtsabbruch nicht in Folge anonymer Drohungen erfolgt sei. Im Internet habe es lediglich Hinweise darauf gegeben, daß Rechtsextreme zu einer Demonstration i
 n Schöppingen erscheinen könnten. Diesen Hinweisen sei die Polizei nachgegangen und habe in diesem Zusammenhang auch eine Schülerin aus Schöppingen vernommen. Dabei sei der Internet-Hinweis, so der Polizeisprecher wörtlich, „wie eine Blase geplatzt“. Vor Ort in Schöppingen sei es am Freitag – dem Tag der Beerdigung des 18jährigen Opfers – nicht zu irgendwelchen Demonstrationen gekommen.
http://www.ahlener-zeitung.de/lokales/kreis_borken/schoeppingen/1114606_Schulschliessung_Alles_nur_getraeumt.html



Auseinandersetzung zwischen Deutschen und Türken in Brandenburg ...
GEWALT: Tatort Lindow: Die Täter sind bekannt
Gegenseitige Beschimpfungen standen am Beginn der Auseinandersetzung / Staatsanwaltschaft ermittelt
http://www.maerkischeallgemeine.de/cms/beitrag/11593447/61299/Gegenseitige-Beschimpfungen-standen-am-Beginn-der-Auseinandersetzung-Staatsanwaltschaft.html

Nach der Schägerei
Türkiyemspor-Präsident erhebt Vorwürfe gegen Ermittler
Nach dem Vorfall zwischen Lindower Jugendlichen und jungen Fußballspielern des Berliner Vereins Türkiyemspor diskutiert der Ort über die Auslegung der Ereignisse. Viele Lindower wollen nicht an einen fremdenfeindlichen Übergriff glauben. Die Staatsanwaltschaft ermittelt gegen beide Seiten.
http://www.tagesspiegel.de/berlin/Brandenburg-Tuerkiyemspor-Lindow;art128,2885783

POL-F: 090824 - 1057 Gallusviertel: Randalierende Spieler lösen Polizeieinsatz auf Fußballplatz aus
Frankfurt (ots) – Am Sonntag, den 23.08.2009 gegen 16.00 Uhr, wurde der Polizeinotruf während eines Fußballspiels von einem Mitglied der Gästemannschaft informiert, daß sie unter anderem durch Ordner der Gastgeber auf dem Sportplatz an der Sondershausenstraße massiv beleidigt und durch Handgreiflichkeiten attackiert werden. Darüber hinaus wären ihnen Schläge nach dem Spiel angedroht worden. Vorausgegangen waren angeblich strittige Schiedsrichterentscheidungen. Da sie in der Vergangenheit schlechte Erfahrungen mit den Gastgebern gemacht hatten, verständigte man die Polizei.
Entgegen der Darstellung einiger Vertreter der Gastgeber hat das aggressive Verhalten von Spielern und sonstigen Verantwortlichen zu dem Erscheinen der Polizei vor Ort geführt. Die Notwendigkeit der Polizei zeigte sich schon beim Eintreffen. Hier schlug ihnen bereits eine deutlich aufgeheizte Stimmung seitens der Gastgeber entgegen. Es kam durch mehrere Spieler der Platzherren unmittelbar zu massiven Beleidigungen und Bedrohungen der Beamten. Ein 30jähriger Marokkaner beleidigte noch aus dem laufenden Spiel heraus die Beamten mit „dreckige Hurensöhne“, „Schmok“, „Weicheier“ und weiteres mehr.
http://www.presseportal.de/polizeipresse/pm/4970/1462697/polizeipraesidium_frankfurt_am_main

Haarsträubendes Video über Ausländerterror in Berlin ...
Kriminelle Ausländer zeigen ihr Waffenarsenal – Akte09
http://www.youtube.com/watch?v=jMGmbhEAZUc

Hier noch einmal die zu Beginn des „Akte“-Berichts gezeigte Attacke in voller Länge ...
Ausländergewalt: Orientalen prügeln auf Polizisten ein
http://www.youtube.com/watch?v=huNaVq0wwJw

Früh übt sich ...
Köln – Mehmet (8): „Ich stech euch ab“
http://www.express.de/nachrichten/region/koeln/ich-stech-euch-ab_artikel_1251217065251.html

Molenbeek(Brüssel): Polizei kapituliert im Mohammedaner-Viertel
http://www.youtube.com/watch?v=jacisnCWbk4

Staatliche Bekenntnisschulen
Andersgläubige müssen draußen bleiben
Von Hermann Horstkotte
„Kurze Beine, kurze Wege“ – diese plausible Regel für Erstkläßler hat Nordrhein-Westfalen abgeschafft. Dort zählt jetzt der Taufschein an einem Drittel der staatlichen Schulen mehr als gute Nachbarschaft. Die Folge: Katholiken bleiben unter sich, vor allem Muslime werden ausgegrenzt.
http://www.spiegel.de/schulspiegel/wissen/0,1518,645731,00.html

361° Toleranz – Antwort auf den Aufruf der Bundeskanzlerin
http://www.youtube.com/watch?v=5hK-7zLvc2k

361 Grad Toleranz – Mobbing gegen Deutsche
http://www.youtube.com/watch?v=An6JedBSmIg

Erstkläßler
Warum früh eingeschulte Kinder seltener aufs Gymnasium wechseln
Für viele Eltern kann die Grundschule gar nicht früh genug losgehen. Doch oft hat das fürs Kind Nachteile. Die Forscherin Andrea Mühlenweg, 32, erklärt im Interview, wieso ein paar Tage viel ausmachen können und der schnellste Weg nicht immer eine Abkürzung ist.
http://www.spiegel.de/schulspiegel/wissen/0,1518,645004,00.html

Wörter, die keiner versteht
Die schlimmsten „Sprachpanscher des Jahres“
„Slacklining“, „Gymmotion“ und „Feel Well Woman“: Mit solchen Wortschöpfungen hat sich der Deutsche Turner-Bund (DTB) beim Verein Deutsche Sprache sehr unbeliebt gemacht. Deshalb wurde der DTB jetzt zum „Sprachpanscher des Jahres“ gekürt. Auf den Plätzen folgen zwei große Konzerne.
http://www.welt.de/kultur/article4417540/Die-schlimmsten-Sprachpanscher-des-Jahres.html

Hausbesetzung als bürgerliche Geste
Die Wohlfühl-Variante der Hafenstraße: In Hamburg haben junge Künstler leere Häuser im Gängeviertel besetzt und alle sind dafür. Tim Ackermann traf den Schirmherrn der Besetzer, Daniel Richter
http://www.welt.de/die-welt/kultur/literatur/article4425233/Hausbesetzung-als-buergerliche-Geste.html

Antike Schriften
Jäger des verlorenen Wissens
Von Dirk Husemann
Nur ein Prozent aller Schriften der Griechen, Römer und Ägypter soll die Zeiten überdauert haben. Bis heute suchen Forscher nach den Überresten der Bibliothek von Alexandria – und in Papyrusfragmenten nach Gedanken aus einer vergangenen Welt.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/mensch/0,1518,644238,00.html

Unbewußte Signale
Schluckauf – ein Überbleibsel der Evolution
Von Harald Czycholl
„Da denkt jemand an dich“ ist die gängigste Erklärung für den Schluckauf. Dabei ist es eigentlich schlicht ein Nerv, der da gereizt wird. Schon als Fötus im Mutterleib gibt es die Hickser. Der längste bekannte Schluckauf eines Menschen dauerte fast 70 Jahre. Gegen Schluckauf hilft ein alter Trick.
http://www.welt.de/wissenschaft/medizin/article4448407/Schluckauf-ein-Ueberbleibsel-der-Evolution.html